Il programma è dedicato alla storia e alla storiografia del buddhismo in India e nel resto dell'Asia con particolare riferimento alla Cina e al Giappone. Nello specifico verranno indagate e messe a confronto le prospettive degli studi filologici, filosofico-religiosi e antropologici rispetto a una selezione di temi e termini rilevanti per lo studio del buddhismo in modo da fornire allo studente gli strumenti utili ad orientarsi nella letteratura specifica e ad approfondire in maniera critica e autonoma le proprie ricerche.
non lo do quindi non mi interessa utile per il corso di arte
Gli studi sul buddhismo hanno avuto la tendenza a generalizzare molto e studiare singole parti non contestualizzandole nell'intero.1) Per molti aspetti ha molto senso provare a parlare di Buddhismi al plurale e non essenzializzare il tutto ad un unico blocco monolitico chiamato buddhismo.2) Questa mancata comprensione è spesso il frutto di un certo occidentalismo che ci porta a proiettare la nostra cultura e le nostre visioni sul e dell'altro, quindi a non avere un'analisi storica sensata dei fenomeni, ma percezioni soggettive. Un bomber nel fare l'analisi di ciò è Said in Orientalismo che mostra bene la nostra cecità culturale, non bisogna essere ingenui, ogni posizionamento e analisi porta con sè molto di noi e dice pure molto di noi.3)
Provare a dare una risposta a questa domanda, a definire cosa sia il buddhismo ci porta sin da subito indagare la domanda stessa: Cosa è una religione? quando si può parlare di religione e quando di filosofia, di scelta etica? Di solito leghiamo una religione all'esistenza di un Dio creatore, il buddha nega ciò, ma crede in spiriti e divinità, quindi è atea? allo stesso tempo deh, mi sembra che sia molto lontano dall'ateismo tipo quello marxista. Che fare? Alcuni hanno parlato di “religione non teistica”, ma in generale siamo abituati ad una definizione troppo stringente di religione.4) Ninian Smart ci consiglia di analizzare le religioni tutte secondo 7 dimensioni:5)
Proviamo ad analizzarle passo dopo passo. Ogni dimensione è importante, esse sono sia correlate tra loro, sia possiamo zoommarle a seconda dei contesti, degli studi, dei vissuti.6)
Altre religioni hanno pratiche più marcate, ma anche il buddhismo non è da meno in particolare in contesto monastico, sia a livello pubblico che privato. La testa rasata, la recita comunitaria delle regole monastiche (il pātimokkha) in momenti specifici, la festa kathina. I monaci non fanno niente a livello sacramentale, no intermediari, però ci sono ai funerali, per l'importanza dello stato d'animo e della morte in generale per la reincarnazione. Il contatto con tradizioni occidentali ha fatto nascere delle nuove cerimonie e allo stesso tempo influenzano riti occidentali.7)
L'esperienza personale ed emotiva del Buddha storico è fondamentale, seguirne gli esempi. Buddhismo come corso di autotrasformazione mediante degli strumenti.8)
La forza dei miti nel buddhismo è forte, essi hanno un forte valore narrativo, sia metaforico che morale, storie locali etc…tutte utili a costruire un'immaginario, un tracciato, un'identità.9)
I buddhisti non parlano di buddhismo, ma parlano del Dharma (“Legge”) o al Buddha-sāsana (“insegnamenti del Buddha”). Gli insegnamenti dottrinali fondamentali sono contenuti in una serie di proposizioni interconnesse. La custodia e l'interpretazioni dei testi spetta agli ordini monastici, ci sono varie dimensioni una più mistica meditativa, altre più filosofiche e legate ai testi, etc etc.10)
Al centro dell'etica buddista c'è il principio del non nuocere (ahimsā). Non sono al di fuori della polica, basti pensare alla resistenza pacifica e non violenta tibetana.11)
Abbiamo monaci e discepoli devoti, ma non solo. È mutevole a seconda delle varie correnti la distinzione tra mondo laico e mondo monastico, non ha un unico capo, ma numerose scuole e assemblee, le comunità decidono in base al consenso.12)
Ha dei luoghi sacri e dei luoghi di pellegrinagio, quindi manufatti fisici, importanti sono anche il testo scritto.13)
Gli studi buddisti, noti anche come Buddhology, sono lo studio accademico del buddismo. “Termine ombrello per l'indagine disinteressata o non apologetica su qualsiasi aspetto del buddismo o delle tradizioni buddiste.”14)
“gli studi sul buddismo hanno sempre assunto una prospettiva esterna, anche quando gli studiosi che li conducono sono essi stessi buddisti. Il campo è quindi un campo intrinsecamente etico, piuttosto che emico. Questo è ciò che separa gli studi sul buddismo, anche della Buddhologia, dalla pratica del Buddhismo, o da quella che oggi alcuni chiamano teologia buddista.15)
Sono una costola degli studi coloniali e post-coloniali e che di recente negli anni '90 hanno iniziato ad adoperare uno sguardo e un taglio critico.
Le informazioni sul buddhismo arrivano sin dal medioevo, però le informazioni sono sparse e intermittenti: tanti nomi per tante religioni diverse, non abbiamo una definione di buddhismo in quanto tale (non si parla nelle fonte di Buddha), ma definizioni vaghe come “religione degli idolacri”. Siamo noi a posteriori che lo capiamo non abbiamo unità nè omogeneità nel vocabolario:
Abbiamo come accennato in precedenza varie terminologie. Marco Polo: “Sergamon Borgani” ( ovvero Śākyamuni Burqan), XVII Matteo Ricci in Cina: “Foë” (Fo), XVII-XVIII secolo, missionari francesi nel Sud Est asiatico: “Sommona Codom” (śramana o Gautama), XVIII, enciclopedia francese da fonti dei gesuiti in Giappone: “Budsdo” (Butsu); “religion de Siaka” (Śākyamuni).
Queste informazioni vengono recepite da loro pari e non da studiosi e in Occidente non si capisce che si tratta della stessa religione. Abbiamo la fascinazione per l’Oriente nel XVIII secolo e l’Encyclopédie afferma: il buddhismo come moderna superstizione, la religione di Siaka o Xaca (Śākyamuni) o Budsdo (butsu). Abbiamo le prime attestazioni scritte di una definizione unitaria (budsdoisme), si capisce che si sta parlando della stessa persona e si conia un ismo, ovvero Budsoismo coniato a partire quindi dal termine giapponese e non dal sanscrito filologicamente rigoroso come è invece Buddha e e buddhismo (in Asia stessa non parlano di Buddhismo).
Abbiamo lo sviluppo degli imperi coloniali nel XIX secolo che alimentano lo studio delle lingue locali da parte occidentale affidato agli impiegati del governo coloniale e di rimbalzo vengono conosciute anche dagli studiosi e dal mondo accademico, ciò porta alla creazione in Europa del mito dell’India come “culla della civiltà”, infatti da lì si svilupperanno tutti gli studi sulle lingue indoeuropee e quindi l'India come corpo originario e primordiale. Questo mito inizia a creparsi quando si inizia ad approfondire la cultura religiosa indiana e gli occidentali la leggono come oscura, irrazionale, violenta e che non ha nulla a che vedere con gli sviluppi europei. Quindi abbiamo nella prima metà del XIX: inizio dello studio scientifico delle lingue orientali (sanscrito, spali, tibetano ecc.) e inizio studi a livello archeologico:
Dalla fascinazione si passa alla scoperta di una civiltà degradata ma risollevata dai nuovi indoeuropei e dal colonialismo e all’induismo incomprensibile e irrazionale gli si contrappone la semplicità razionale del de buddhismo (semplicità=meno corrotto=più antico=più autentico). In maniera paternalistica gli europei vorrebbero riportare in auge il buddhismo in India e la scelta della fonte per la conoscenza del buddhismo sono le fonti canoniche. Burnouf studia le fonti pali e le presenta come la più antica tradizione buddhista, sia per la mole materiale di fonti, sia perchè anche in Asia alcune comunità monastiche presentano tale letteratura come la forma più antica di letteratura, inquinando la percezione occidentale. Gli studiosi e gli antropologi dell'Ottocento erano troppo in fissa con il comparativismo e da una preminenza delle fonti testuali canoniche, ovvero i testi sacri la cui autorità è riconosciuta dalla tradizone e sono il concentrato dell'autenticità. La preminenza assegnata ai testi a scapito delle pratiche religiose, delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche fu un riflesso della mentalità protestante degli studiosi. A smontare queste apparato di analisi fu in particolare J. Silk, “Buddhist Studies” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.
Bibliografia di riferimento per approfondimenti: W. Halbfass, India and Europe: An Essay in Understanding, 1988.
Come è stata ricostruita la storia del buddhismo? i Pregiudizi e limiti della storiografia precedente:
Bibliografia di riferimento su questo tema:
Materiali archeologici ed epigrafici hanno la caratteristica di essere databili, contestualizzabili, materiali non concepiti per circolare ed essere letti.
le fonti testuali canoniche invece sono difficilmente databili, già gli scritti pali stessi erano corrotti, ovvero erano note da versione manoscritte recenti e avevano un obiettivo normativo, non erano testi neutri, scritti per trasmettere un ideale.
Facciamo un esempio in cui la priorità delle fonti canoniche porti a pregiudizi e conseguenze di distorsione del fenomeno, ovvero la negazione delle prove archeologiche:
Presence, Marg Pubs.,1996, pp. 58-73.
La ricostruzione della realtà storica del monachesimo attraverso i materiali epigrafici: G. Schopen e l’esempio della stele di Bodhgayā. L’iscrizione del XIII secolo ricorda il dono di un villaggio al Vajrāsana (il seggio dell’Illuminazione) per il monastero locale e l’affidamento del dono al monaco Mangalasvāmin. Il testo e l’immagine sottostante ammoniscono, con parole ingiuriose, chi tenti di appropriarsi della donazione.
I nomi delle iscrizioni delle donazioni sono importanti perchè dicono molto della percezione del Buddha da parte dei fedeli, ovvero lo venerano quasi più come un santo che come un maestro spirituale e modello umano, esse non usano le lingue della popolazione locale, ma una lingua comune che veicolava il messaggio buddhista. Tutti pagavano sia la lastra che l'incisore, il nome era importante perchè rappresentava l'identità, l'essenza del donatore che così facendo si rendeva il più vicino possible al Buddha, perchè erano lastre non a caso, ma negli stupa dove venivano conservate le reliquie del Buddha, spesso infatti il nome era in contatto con la terra e quindi con il Buddha stesso.
Quando la narrazione tradizionale si fa storia: il caso Chan/Zen
Gli elementi della “narrazione interna”, il Buddha, il fiore e Bodhidharma. Il modello genealogico, la polemica antiscolastica e antidiscorsiva. Non “una” tradizione interpretativa, ma “la” tradizione. Il Chan è il buddhismo e i suoi insegnamenti e sono gli nsegnamenti autenticamente buddhisti. Dai testi all’aneddoto. Il Buddha = il maestro. Invenzione di una narrazione e di un lignaggio ininterrotto. Venuto alla ribalta con il libro di Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco.
Dalla ricostruzione arbitraria alla reinvenzione della pratica
Sārnāth
Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito come luogo del Primo sermone: nessuna Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; i numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika.
Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī, nelle pianure del Terai. Il suo popolo era conosciuto come Sakyas e per questo motivo il Buddha è a volte chiamato Sakyamuni o “il saggio dei Sakya” (Śākya significa “potenti”). Per i suoi seguaci è conosciuto come Bhagavat o “Signore”. Il nome personale del Buddha, come già detto, erac Siddhattha Gotama (sanscrito: Siddharta Gautama). Le date convenzionali per la vita del Buddha sono il 566-486 a.C., anche se ricerche più recenti indicano come data più probabile per la sua morte il 410 a.C. La sua famiglia di origine si dice fosse ricca (forse esagerazione postuma): una stirpe guerriera che dominava il paese. Il padre di Siddartha, il rāja Suddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord.16) La madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.
Suddhodana e Māyā erano sposati da molti anni e non avevano avuto figli. Nel Buddhacarita si racconta che Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le entrava in un fianco destro. Per l'India antica erano animali rari e preziosi, se un sovrano lo vedeva, era un segno di buon auspicio, lo stesso governo militare nel Myanmar lo utilizzò per legittimarsi. Al risveglio racconta il sogno al marito che consulta degli interpreti che gli dicono che nascerà un bambino grandioso. La gravidanza è infatti piena di eventi miracolosi e straordinari, a sottolinere sia il caratterre divino del BUddha (Dio), sia il suo carattere superiore agli altri uomini (re), ma anche la sua natura umana (uomo). Lei, vicino al nono mese si mette in viaggio per andare a partorire dai suoi genitori che si trovavano Kapilavatthu, la capitale della Repubblica di Sakyan. Lei e la sua scorta si fermano in un bellissimo boschetto a Lumbinı̄ , allungandosi per sentire il profumo di un fiore nella foresta, partorisce in piedi, senza dolore dal fianco destro (segno di positività). Buddha nacque pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso. C'è un aggiunta posteriore in cui viene accolto dalle divinità antiche del subcontinente indiano. Il bambino fece sette passi e profetizzò che questa sarebbe stata la sua ultima vita. Il bambino viene presentato al padre e dopo sette giorni muore e viene allevato dalla seconda moglie, ovvero una sorella della madre, Pajāpatī.17) Dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una cerimonia di buon auspicio e lo portano anche al santuario locale dove sono gli dei locali a rendergli omaggio e non viceversa. Durante questa cerimonia si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un Monarca universale, oppure un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un Buddha. Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti. Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito. ricevette il nome di Siddharta (=“quegli che ha raggiunto lo scopo”) Gautama (“l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya”). Il ragazzo cresce eccellendo in ogni attività e si sposa presto, con base rito indiano, all'età di sedici anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula (che significa catene, quelle che intrappolano Gautama). Viene totalmente allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in qualità di erede al trono, vive in una bolla lontano dalla vita reale.
Si parla poi dell'incidente della festa di primavera, in cui viene portato nei campi, dove cade in una trance meditativa spontanea e inizia ad osservare la fatica e il dolore e la catena di violenza spietata e ineluttabile che è la vita. Fa esperienza sia della sofferenza e sia dell'arresto temporale dovuto alla meditazione. A 29 anni, ignaro della realtà che si presentava fuori della reggia, volle uscire dal palazzo reale paterno per vedere la realtà del mondo. Il padre provò a impedire in tutti i modi che il figlio vedesse la sofferenza del mondo, evitando dalla strada infermi e malati, ma gli dei intervennero. Così incontrò prima un vecchio, poi un malato e infine un cadavere. Comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo, tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri. Capì che la sua era una prigione dorata e cominciò interiormente a rifiutarne agi e ricchezze. Poco dopo si imbattè in una quarta figura, un monaco mendicante (samana), calmo e sereno, e decise di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la liberazione. Altro episodio aggiunto dopo è proprio che la scelta di abbandonare tutto e tutti è stata fatta dopo una festa, in cui lui guarda delle danzatrici, che ai suoi occhi non sono sensuali , ma corpi stanchi accasciati come cadaveri. Ineluttabilità della transitorialità della vita, sogno della coscienza, sta decidendo di andarsene.18)
Una notte, mentre la reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica. Fuga segreta, gli dei intervengono per non far sentire gli zoccoli del cavallo sul selciato. Arrivarono fino al limitare della foresta, luogo dell'ignoto, e i 3 si lasciano, il cavallo morirà sul colpo per il dolore della spearazione. Si cambia le vesti ricche con quelle giallo e rosse di un cacciatore, i colori della rinuncia. Turbante e gioielli li lascia allo scudiero per riportarli a casa, si taglia la lunga chioma di capelli e si avventura nella foresta alla ricerca di maestri, sperimentando l'India filosofica. Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nella regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la ākiñcaññayatana, la “sfera di nullità” che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa. Divenne il king della tecnica, ma era insoddisfatto poichè lo stato di trance non era permanente. Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che, esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né non-percezione, dove persino la coscienza sembrava scomparsa. Anche qui Gautama si rende conto che però queste pratiche meditative ti danno si poteri psichici, ma sono bolle che ad una certa finiscono e si ritorna al problema. Lascia il maestro per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi chilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto a sua volta maestro spirituale. Inizia a praticare tecniche di austerità estrema per sottomettere appetiti e passioni Ad un certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione, tornò a una dieta normale (dopo aver sognato la madre che lo intimava di cambiare percorso) accettando una tazza di riso bollito nel latte offertagli da una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò la perdita dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza e lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni, non spossato da fame, sete e sofferenze autoinflitte. Prese tale ciotola di riso e si autodisse: se risale le correnti del fiume devo trovare un'altra strada da solo, e così la tazza fece.19)
Si mise seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya a gambe incrociate nella posizione del loto e iniziò a meditare:
Māra il dio del desiderio, cercò prima di sedurre Siddharta tramite l'apparizione delle sue tre figlie, Tanha (lett.”Bramosia“), Arati (lett.”Noia“) e Raga (lett.”Passione“), poi cercò di spaventarlo con l'apparizione di dieci eserciti di esseri mostruosi (corrispondenti ai dieci tipi di ostacoli della vita spirituale):
Mara è il tentatore, colui che distrae gli esseri dalla pratica rivolta alla Liberazione dal Saṃsāra, rendendo la vita mondana seducente o facendo sembrare il negativo come positivo. Esso rappresenta, più in generale, la Morte spirituale, tutto ciò che ostacola la via verso la Bodhi.
Gautama soddsifatto della rivlenazione, toccà terra, chiamando la dea della Terra a testimonianza di ciò che è successo. Riflettè una settimana se praticare una vita privata o conividere la sua scoperta e alla fine, aiutato anche dalle divinità scelse quest'ultima strada.20)
Il Buddha giunse a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā, che avevano intenzione di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di condividere quanto aveva scoperto. Il Buddha si proclamò un Tathāgata (“colui che ha raggiunto ciò che è realmente così”) e predicò il suo primo sermone. Esso è conservato come un discorso (sutta) intitolato Dhammacakkappavattana-vagga Sutta, Mettere in moto la ruota del Dharma e contiene gli insegnamenti essenziali del buddismo, enunciati in una formula nota come le Quattro Nobili Verità, che si apre con la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione, doloroso, volgare e dannoso. Lui propone una “Via di mezzo”. Ascoltando le parole del maestro, i discepoli divennero “entranti nel flusso”. Iniziò così la fase di predicazione e di monachesimo in lungo e in largo dell'India.21)
La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che poi prese la forma di Induismo) e dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il Dharma. Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha.
Un importante testo noto come Discorso della Grande Morte fornisce un resoconto degli eventi dei pochi mesi che precedettero la morte del Buddha. Ormai aveva ottanta anni e non stava al top, la meditazione e i poteri psichici lo tenevano in piedi. Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda (il discepolo più giovane con il quale ebbe l'ultimo confronto). Lì il Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi principali della sua dottrina. Secondo la tradizione, morì a Kuśināgara, nel 486 a.C. Lui scelse di morire, progressivo deterioramento psicofisico, Il parinirvāṇa indica la cessazione dell'esistenza dei cinque aggregati che costituiscono l'esistenza psicofisica dell'individuo, alla morte di un Buddha o di un arhat. È quindi sinonimo della estinzione di un Buddha o di un maestro illuminato. Il Buddha morì sdraiato sul fianco destro tra due alberi di Sal che, secondo i testi, fiorirono miracolosamente. Sebbene si dica spesso che morì per avvelenamento da cibo dopo aver mangiato un pasto a base di carne di maiale donato da un seguace laico, è chiaro che si riprese e che la sua morte avvenne un po' più tardi, apparentemente per cause naturali. Poco prima della sua morte, il Buddha riunì i monaci e diede loro l'opportunità di porre le ultime domande. Non ne fece nessuna, il che fa pensare che a questo punto il penisero era stato compreso appieno. Il Buddha pronunciò quindi le sue ultime parole: 'Il decadimento è insito in tutte le cose: assicuratevi di lottare con chiarezza di mente (per il nirvana)”. Sereno e composto, passò poi attraverso diversi livelli di trance meditativa meditativa (jhāna) prima di entrare nel nirvana finale. La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra. La cerimonia e il funerale erano degli di un sovrano universale, questo diede il tempo a Mahākassapa, il più autorevole dei monaci dopo la morte del maestro, di giungere a Kuśināgara e prendere parte ai riti funebri. La pira l'accese lui stesso, sfiornadogli i piedi, simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire un Buddha. Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara. La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene. Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.22)
Ci sono due grandi orientamenti:
Poi abbiamo delle biografie e racconti dei pellegrini cinesi come strumenti per l'identificazione dei luoghi.
Alexander Cunningham (1814-1893) il maschio basic occidentale che il king dell'archeologia monumentale e del Rinascimento buddhista.
É. Lamotte, tenta di far affiorare la biografia del Buddha storico dai testi “è un'impresa senza speranza” (Histoire du Bouddhisme indien, 1958)
Oggi? Tendenza a partire dalla metà del XX secolo, studiare i racconti biografici nella loro interezza senza tentare di distinguere tra storia e leggenda. Tenere di conto di come viene raccontata la vita del Buddha nelle comunità monastiche, essa è una storia esemplare e questo processo agiografico non nasce subito, possiamo immaginare una memoria storica orale e poi successivamente arricchita.
Abbiamo un assenza di un'unica biografia canonica, ma molteplicità di informazioni biografiche contenute in numerosi testi della letteratura canonica (sutra e vinaya), testi autonomi della letteratura buddhista in sanscrito (Buddhacarita, Lalitavistara, Mahāvastu), le biografie del canone cinese e del canone tibetano, materiali eterogenei che si ofrrono a interpretazioni differenti.
Tendenze recenti degli studi sulle narrazioni biografiche del Buddha:
la questione della data:
nessuna testimonianza archeologica chiaramente legata al buddhismo risale a un’epoca anteriore al III sec. a.C.
Riferimenti bibliografici: H. Bechert (a cura di), The Dating of the Historical Buddha, 3 voll., 1991-97.
la questione dei luoghi: l la tradizione del pellegrinaggio nei luoghi “della vita del Buddha” e lo sviluppo della narrazione agiografica si sono sviluppate Parallelamente intrecciandosi e influenzandosi reciprocamente. Il racconto biografico celebra alcuni siti come i luoghi di celebri eventi della vita del Buddha, d’altra parte altri siti significativi a vario titolo (per la particolarità del paesaggio o per il legame con leggende locali) confluiscono nella geografia sacra buddhista determinando un ampliamento del racconto biografico che si arricchisce di nuovi elementi.la prima testimonianza del collegamento del Buddha con alcuni luoghi del pellegrinaggio e la testimonianza del pellegrinaggio di Aśoka a Lumbinī e, forse, a Kuśinagarī datano al III secolo a.C.
Il contesto della religiosità brahmanica all’epoca del Buddha:
Figure e idee diffuse:
Storicità del racconto:
I mahāsthāna (i “grandi luoghi”)
La dinastia Maurya (323-185 a.C)
Aśoka(268-232 a.C.)
Lumbinī:
Bodhgayā:
Sārnāth:
Kuśinagarī:
L’archeologia ha portato alla luce siti e opere d’arte connesse chiaramente con il Buddha ma si tratta di testimonianze posteriori di alcuni secoli dalla sua esistenza.
Usare fonti letterarie tarde per ricostruire eventi ben più antichi è un’operazione rischiosa (e metodologicamente sbagliata).
È d’altra parte condiviso che tutte queste testimonianze si riferiscano a una figura storica reale vissuta in qualche momento intorno alla metà del I millennio a.C.
Il pensiero buddista divide l'universo in due categorie: l'universo fisico, che è pensato come un recipiente o “contenitore” (bhājana) e gli “esseri” (sattva) o forme di vita che vi risiedono. L'universo fisico è formato dall'interazione dei cinque elementi: terra, acqua, fuoco, aria e spazio (ākāśa); Quest'utimo è consderato infinito. Attraverso l'interazione dei cinque elementi si sviluppano dei “sistemi-mondo” che si trovano in tutte le direzioni: nord, sud, est, ovest, sopra e sotto. Si ritiene che questi sistemi-mondo subiscano cicli di evoluzione e declino che durano miliardi di anni. Nascono, resistono per un certo periodo e poi si disintegrano lentamente prima di essere distrutti in un grande cataclisma. A tempo debito si evolvono di nuovo per completare un vasto ciclo noto come “grande eone”. Lo status morale degli abitanti può determinare il destino del sistema-mondo (ganzo potrebbe avere implicazioni ecologiste molto interessanti. La Terra è ben lontana dall'essere il fulcro attorno al quale ruota il cosmo e gli esseri umani non sono gli unici attori del palcoscenico. Il tempo, inoltre, è concepito come ciclico piuttosto che lineare: la storia non ha una direzione o uno scopo generale.23) All'interno di un sistema-mondo esistono diversi “regni” di rinascita, essi sono 6 e sono spesso raffigurati nella “ruota della vita” (bhavacakra). Abbiamo poi ventisei diversi livelli o “dimore” celesti, poi degli inferni (che non sono luoghi di dannazione eterna, ma luoghi in cui il karma malvagio deve fare effetto, così i regni celesti, c'è transitorietà tra i vari regni). Sopra gli inferni abbiamo il regno animale (guidati dall'istinto e quindi deh sbussi di rinascerci perchè non avrai possibilità di comprendere la tua condizione). Sopra abbiamo il regno dei fantasmi, che si trovano al margine della soicetà umana, possiamo vederli come ombre, essi sono consumati da desideri che non possono mai essere soddisfatti e sono raffigurati nell'arte popolare come creature con grandi stomaci e bocche minuscole che simboleggiano la loro fame insaziabile ma sempre insoddisfatta. Il quarto livello è quello dei Titani, una razza di esseri demoniaci bellicosi in balia di impulsi violenti. Motivati dalla bramosia di potere, cercano costantemente conquiste in cui non trovano appagamento. Al quinto livello si trova il mondo umano. La rinascita come essere umano è considerata altamente desiderabile e allo stesso tempo difficile da ottenere. Sebbene esistano molti livelli superiori in cui è possibile rinascere, essi sono potenzialmente un un ostacolo al progresso spirituale. Rinascendo come dio in un paradiso idilliaco si può facilmente diventare compiaciuti e perdere di vista la necessità di lottare per il nirvana. Gli esseri umani hanno la ragione e il libero arbitrio e possono usarli per capire i problemi della vita.24) I ventisei piani superiori del nostro edificio (livelli 6-31) sono le dimore degli dei. I cinque cieli superiori (livelli 23-27) sono noti come “Dimore Pure” e possono essere raggiunte solo da coloro che sono conosciuti come “nnon ritornanti”. Si tratta di esseri sul punto di ottenere l'illuminazione che non rinasceranno come esseri umani. Le divinità al di sotto di questi livelli (deva) sono semplicemente esseri che, grazie al compimento di buone azioni, godono di stati di esistenza armoniosi e beati. Tuttavia, sono soggetti al karma e rinascono come tutti gli altri. I livelli superiori dei cieli sono sempre più sublimi e la durata della vita aumenta a ogni stadio, ma il tempo viene percepito in maniera completamente diversa.25)
Questa cosmologia è accompagnata da un'altra distinzione, ovvero la divisione dell'universo in tre sfere di esistenza:
Al centro della ruota si trova la rappresentazione dei Tre veleni:
Attorno alla rappresentazione dei tre veleni si trova un anello diviso in una metà nera e una metà bianca. Al suo interno in senso orario si trovano varie rappresentazioni del corpo umano, dal feto alla piena maturità alla vecchiaia, o demoni, o la figura del monaco (poichè porta alla salvezza). La Ruota dell'esistenza è quindi divisa in sei spicchi, in cui in senso orario si susseguono le rappresentazioni di sei diversi “mondi”. Questi possono essere presi sia in senso letterale che in senso figurato a rappresentare stati mentali diversi. L'anello esterno della Ruota dell'esistenza presenta dodici immagini simboliche che rappresentano i dodici anelli della ruota della coproduzione condizionata. Queste, dall'alto in senso orario, sono:
L'intera ruota viene rappresentata saldamente stretta dagli artigli di Yama, il Signore della Morte e del Tempo. Al di sopra, in genere nell'angolo destro, viene raffigurato il Buddha Śākyamuni che indica verso un punto esterno, un altrove assoluto, la fuoriuscita dalla ruota.
Il karma funziona come l'ascensore che porta le persone da un piano all'altro dell'edificio che abbiamo appena visto. Le buone azioni si traducono in un movimento verso l'alto e le cattive azioni in un movimento verso il basso. Le azioni karmiche sono azioni morali e il Buddha definì il karma in riferimento alle scelte morali e alle azioni che ne conseguono, avendo scelto si agisce in quanto hanno effetti sia transitivi (impatto diretto) che intransitivi (impatto indiretto, influenzare). Scegliendo, costruisce un carattere che a sua volta delinea un futuro. Il buddismo spiega questo processo in termini di saṅkhāras (sanscrito: samskāras), un termine difficile che di solito viene tradotto come “formazioni mentali”.I saṅkhāra sono i tratti e le disposizioni del carattere che si formano quando le scelte morali (cetanā) vengono fatte e rese effettive nell'azione. Gli effetti a distanza delle scelte karmiche sono definiti come “maturazione” (vipāka) o “frutto” (phala) dell'atto karmico.27) Che cosa rende un'azione buona o cattiva? Dalla definizione del Buddha si può vedere che è in gran parte una questione di intenzione e di scelta. Esistono tre radici buone e tre cattive. Le azioni motivate da avidità, odio e illusione sono cattive (sanscrito: akuśala), mentre le azioni motivate dai loro opposti - non-attaccamento, benevolenza e comprensione, sono buone (sanscrito: kuśala). Le buone intenzioni devono realizzarsi in azioni giuste che sono quelle che non danneggiano nè se stessi nè gli altri.28) Il karma può essere buono o cattivo. I buddisti parlano di karma buono come “merito” (sanscrito: punya). In molte culture buddiste esiste la credenza nel “trasferimento dei meriti”, l'idea che il buon karma possa essere condiviso con gli altri.29)
Obiettivo è quindi porre fine alle rinascite e alla sofferenza, ciò consiste nella realizzazione del potenziale umano di bontà e felicità. Chi raggiunge questo stato completo di auto realizzazione si dice che abbia raggiunto il nirvana. Esso è sia un concetto che un'esperienza, ovvero delinea una vita ideale e una pratica per raggiungerla. Come si arriva al nirvana? Uno potrebbe dire compiere buoni azioni e vivere una vita eticamente virtuosa, però alcuni non sono d'accordo perchè anche le buone azioni creano debito karmico. Ma i testi e il Buddha stesso parlano a rota di vita morale; Come risolvere questo cortocircuito? Per alcuni la vita etica è importante, ma da sola non basta. L'altra componente che è necessaria è la saggezza (sanscrito: prajñā), che significa una profonda comprensione filosofica della condizione umana.30) Ammesso che la saggezza sia la controparte essenziale della virtù, che cosa è cosa si deve conoscere per diventare illuminati? La risposta è semplice quella che ha esperito il Buddha storico e che ha divulgato nel suo primo sermone: le “quattro nobili verità”, esposte nel “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” (Dharmacakrapravartana Sūtra, sans.). Esse sono strutturate secondo un'indagine medica:
Esse costituiscono il Dharma etrmine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati. Può essere tradotto come “dovere”, “legge”, “legge cosmica”, “legge naturale”, oppure “il modo in cui le cose sono”. Per l'induismo è la norma che regge il mondo: rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell'universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito, per esempio il non essere violento e la coerenza di postura in pensiero e azione. Nel buddhismo, possiede l'ulteriore significato di Legge universale naturale, ovvero le regole in cui il saṃsāra segue il suo corso, indica gli insegnamenti del Buddha, a partire dall'origine del duḥkha (la sofferenza), la pratica di tali insegnamenti, la via verso l'Illuminazione e di conseguenza il Buddhismo stesso.
Nella vita degli esseri senzienti (sanscrito sattva, cinese 衆生 zhòngshēng, giapponese. shūjō), tra cui l'essere umano, è insita la “sofferenza” (san. duḥkha, cin. 苦 kǔ, giapp. ku). Tale esperienza del dolore riguarda anche i momenti di “appagamento” e “serenità” in quanto essi stessi impermanenti. Nei testi canonici il Buddha Shakyamuni individua otto tipi di dolore:
Questa lista di otto dolori viene riassunta in tre categorie (san. tri-duḥkhatā, cin. 三苦 sānkǔ, giapp. sanku):
Il “dolore” affligge l'uomo a motivo dell'impermanenza sia propria che di tutto ciò che sperimenta e conosce in vita, per effetto della sua nascita immersa nel saṃsāra e per l'adesione alla credenza in un sé imperituro. Questa sofferenza si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama (contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi sgradevoli ecc.), come pure è percepita quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama o in cui ci si diletta, o ancora quando si risente di un disagio esistenziale derivante dallo scontrarsi con una realtà che non soddisfa la propria adesione all'idea di un sé solido, affidabile ed imperituro. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del “dolore”. Più in generale, la constatazione che viene fatta nella “Prima nobile verità” è che esiste nella vita dell'uomo una “sofferenza” associata indistricatamente all'essere nel mondo un mutevole «composto di aggregati».32)
Come era concepita la liberazione nel pensiero filosofico indiano?
l termine sanscrito di genere maschile mokṣa, così come il termine sanscrito femminile avente il medesimo significato mukti, indicano in questa lingua la “liberazione” dal ciclo di nascita-morte, dalla sofferente trasmigrazione, propria del saṃsāra. Ambedue i termini originano dal verbo sanscrito muc avente il significato di “liberarsi”. Come abbiamo visto, la nozione di “liberazione” dal saṃsāra non attiene al “vedismo”, ovvero alla religione antica dell'India, compendiata nei suoi testi religiosi dei Veda e dei Brāhmaṇa, il quale persegue essenzialmente la bhukti, la felicità terrena, quanto piuttosto origina dai testi delle Upaniṣad (il termine qui usato è mukti; mentre nella Chāndogya Upaniṣad, VII, 26,2, è il composto vipramokṣa, dallo stesso significato) e si diffonde nel VI secolo a.C., contemporaneamente al buddhismo e al giainismo. Tale nozione di “liberazione”, espressa con termini sempre derivanti dal verbo muc, verrà successivamente approfondita da importanti testi induisti quali la Bhagavadgītā e il Manusmṛti . In ambito delle filosofie yogiche il termine utilizzato per indicare la liberazione è invece apavarga nel significato di “abbandono”, “fuga” dal saṃsāra. Mentre la filosofia sāṃkhya predilige il termine kaivalya col significato di isolamento del puruṣa liberatosi dalla prakṛti. Le tradizioni ascetiche predicano la liberazione in vita e non dopo la morte del corpo, nel qual caso tale raggiungimento viene indicato con il termine jīvanmukta (“liberato in vita”). A partire dai commentari del Brahmasūtra propri della medievale filosofia Vedānta, il termine più diffuso diviene mokṣa. Sono differenti le “vie” di “liberazione” dal saṃsāra che il complesso religioso che va sotto il nome di “Induismo” offre al suo praticante (ad esempio le darśana), e queste possono essere approfondite nelle voci delle relative scuole e insegnamenti. In generale attraverso la meditazione si arriva a progressivi stati di coscienza rarefatti, esperire “a togliere”, ma non è una condizione permanente e sta lì il problema per il buddhismo.
Come nasce questa sofferenza? La seconda verità è che il “dolore” non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama (sanscrito tṛṣṇā, cin. 愛 ài, giapp. ai), per ciò che non è soddisfacente e questo genera attaccamento. Si manifesta nelle tre forme di:
Tutti i desideri sono sbagliati? no, il termine indica tutti quei desideri eccessivi o erroneamente indirizzati. Ovvero tutti quei desideri alimentati dall'odio, dall'ignoranza e la cupidigia
La terza verità è che “Esiste l'emancipazione dal dolore”. Per sperimentare l'emancipazione dal dolore, occorre lasciare andare tṛṣṇā, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. Questo stato di cessazione viene denominato nirodha (cin. 滅 miè, giapp. metsu). Cosa viene “spento”? È forse la propria anima, il proprio ego, la propria identità? Non può essere l'anima a essere spenta, perché il buddismo nega che esista. E non è nemmeno l'ego o il senso di identità a scomparire, anche se il nirvana implica uno stato di coscienza radicalmente trasformato e libero dall'ossessione di “io e mio”. Ciò che si spegne, infatti, è il triplice fuoco della dell'avidità, dell'odio e dell'illusione che porta alla rinascita. Ricordiamo che abbiamo un nirvana nella vita e un nirvana finale con la morte (di cui è difficile dare una definizione).
La quarta verità è che “Esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore”. È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nirvāṇa (cin. 涅槃 nièpán, giapp. nehan). Esso è detto il Nobile ottuplice sentiero ed è il modo migliore per vivere una vita appagante. Si compone di otto fattori suddivisi nelle tre categorie di Moralità, Meditazione e Saggezza, che vedremo un po' più nel dettglio.
Il “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” individua tre fasi nella comprensione di ogni verità, per un totale di dodici passi. Le tre fasi per la comprensione di ciascuna verità sono:
Prima nobile verità
Seconda nobile verità
Terza nobile verità
Quarta nobile verità
Bisogna sviluppare gli Otto sentieri“ con un approccio “olistico”, perfezionandoli contemporaneamente e in modo equilibrato. Questo implica che non occorre predisporre un ordine sequenziale di questi sentieri ma, piuttosto, l'indicazione che il percorso buddhista tenda complessivamente a tutte le sfaccettature di una singola attività quotidiana, sia mentale che fisica, verbale o spirituale. Esso però può essere considerato secondo tre tipologie di perfezionamento denominate in sanscrito trīṇiśikṣaṇi o śikṣā-traya, cin. 三學, sān xué, giapp. san gaku). Questo ordinamento prevede una “spirale” di perfezionamento. Ogni passo procede ad un elevamento verso quello successivo che poi spinge quello che lo precede.
È una ristrutturazione intellettuale, emotiva e morale.
Non passò molto tempo prima che sorgessero dei disaccordi, inizialmente su questioni di pratica monastica e in seguito sulla dottrina e, in assenza di un'autorità centrale si svilupparono tradizioni differenti. Il disaccordo più grave si verificò circa un secolo dopo la morte del Buddha tra un gruppo, in seguito designato come “Anziani” (Sthaviras), e un altro noto come “Assemblea Universale” (Mahāsaṅghikas).
La causa più probabile dello scisma, non furono come sostengono alcuni, motivi dottrinali, ma sembra essere stato il tentativo da parte degli anziani di modificare la Regola monastica introducendo ulteriori regole di condotta. A tempo debito sia gli Anziani che l'Assemblea Universale si frammentarono in una serie di numerose sotto-scuole. Tutte queste si sono estinte nel frattempo, con l'eccezione del Theravāda, che discende dalla tradizione degli Anziani. Tuttavia, molte di queste prime scuole hanno lasciato un'eredità nel contributo a un nuovo movimento rivoluzionario che divenne noto come Mahāyāna, “Grande Veicolo”. Esso pone grande enfasi nella ricerca della salvezza per gli altri. Questo idea trova espressione nell'ideale del bodhisattva, una persona che fa voto di lavorare instancabilmente per innumerevoli vite per condurre gli altri al nirvana.33) È la compassione (karunā) che muove un bodhisattva, non è un redentore, ma è con l'esempio che aiuta le persone, una guida. Il Buddha storico invece inizia sempre ad allontanarsi sempre di più: un essere così compassionevole non può essersi ritirato dall'esistenza, ma continua ad aiutarci in un mondo trascedente. Emerse una nuova buddhologia in cui si sosteneva l'esistenza di “tre corpi” (trikāya) o esistenti in tre dimensioni: terrestre, celeste e trascendente:
Non era raro che i monaci ordinati nell'Assemblea Universale, o anche in rami della tradizione degli Anziani, avessero dei Mahāyāna pur vivendo in comunione con confratelli che non lo facevano. Emergono dei nuovi sutra di riferimento, scritti anonimi e a più mani: il Sūtra del Loto (200 ca.), intraprende una drastica revisione della storia buddista delle origini. Sostengono, in sostanza, che, sebbene il Buddha storico fosse sembrato vivere e morire come un uomo comune, in realtà era illuminato da sempre e che aveva rivelato una verità parziale perchè più comprensibile, c'era bisogno di un secondo giro della ruota del Dharma. Ciò che i seguaci del Mahāyāna cercavano soprattutto attraverso la loro pratica religiosa era seguire il sentiero del bodhisattva. Lo stadio iniziale cruciale è l'insorgere di quello che è noto come “pensiero di illuminazione” o bodhicitta. Questo potrebbe essere considerato un'esperienza di conversione. Fa un voto (pranidhāna) di salvare tutti gli esseri conducendoli al nirvana. Al centro della pratica di un bodhisattva ci sono sei virtù, note come le Sei Perfezionini:
Egli progredisce attraverso uno schema di dieci stadi (bhūmi), ognuno dei quali è un importante punto di riferimento sulla via del nirvana. Si creò un vasto pantheon di Buddha e Bodhisattva e si inizò ad affermare che tutti i mondi avessero avuto dei Buddha, così emersero nomi fittizi e regni dei Buddha. Una “famiglia” di cinque Buddha, è spesso raffigurata in diagrammi mistici circolari noti come mandala. Man mano che i nuovi sūtra si moltiplicavano, i maestri buddisti cominciarono a comporre commentari e trattati che esponevano le basi filosofiche del Mahāyāna. Il più famoso di questi filosofi fu Nāgārjuna, che visse intorno al 150, e fondò una scuola conosciuta come la Madhyamaka o “scuola di mezzo”. Nella tradizione canonica i dharma erano considerati i mattoni di cui erano composti tutti i fenomeni. Erano concepiti come impermanenti, ma non per questo meno reali. Su questa base, oggetti come tavoli e sedie venivano analizzati come composti di elementi piuttosto che come entità con una natura propria e duratura. Una sedia, ad esempio, potrebbe essere vista come composta solo da gambe, sedile e schienale: non c'è una “sedia” al di là di queste parti. Nāgārjuna, invece, interpretò la dottrina dell'origine in solo impermanente, ma priva di qualsiasi realtà intrinseca. Egli riassumeva questo dicendo che tutti i fenomeni, tavoli, sedie, montagne, persone sono semplicemente vuoti di qualsiasi essere reale. Però non sostiene che le cose non esistano, ma semplicemente che non esistono come realtà indipendenti nel modo in cui la gente normalmente crede. Questa linea di pensiero aveva un'altra importante implicazione, ossia che non ci può essere differenza tra il nirvana e il regno della rinascita ciclica (samsāra). Se ogni cosa è priva di esistenza reale, tutto è sullo stesso piano e non possiamo fare distinzoni, la differenza non sta nelle cose, poichè esse sono tutte vuote, la differenza allora starà dentro di noi e la nostra percezione delle cose. Ne consegue che il nirvana è qui e ora, se solo potessimo vederlo. La rimozione dell'ignoranza spirituale (avidyā) e la realizzazione che le cose sono vuote distrugge la paura o il desiderio per esse. Questo complesso di idee fu chiamato “la dottrina della vuoto” (śūnyavāda). Oltre alla dottrina del vuoto, sono sorti molti altri sistemi filosofici complessi, come l'insegnamento della “sola mente” (cittamātra), una forma di idealismo che vede la coscienza come unica realtà e nega l'esistenza oggettiva agli oggetti materiali. Nessuno dei primi insegnamenti del Buddha viene rifiutato dal Mahāyāna, anche se a volte vengono reinterpretati in modo radicale. Le aree in cui il Mahāyāna è stato più innovativo sono state la sua buddhologia rinnovata e nei culti devozionali che sorsero intorno ai vari Buddha e bodhisattva.
Buddha storico (V-IV sec. a.C.) – vita e magistero nell’area degli antichi regni del Magadha e Kosala. Nei secoli successivi alla morte del Buddha ha inizio la diffusione della comunità buddhista oltre i confini della regione originaria. Tracce di questa diffusione restano nella lingua del canone theravāda (fissato a partire dal I sec. a.C.), che riflette l’esistenza di diversi dialetti e sottodialetti in uso all’epoca di Aśoka (dal confronto con i testi delle iscrizioni rinvenuti in diverse parti del territorio indiano), come pure delle porzioni di altre tradizioni canoniche che ci sono giunte (canone mahāsāṅghika, sarvāstivāda, dharmaguptaka). Questi indizi suggeriscono la dispersione geografica della comunità buddhista nel subcontinente e la necessità di tradurre l’insegnamento del Buddha nelle lingue parlate nell’aree di diffusione della comunità anche se non è possibile precisare né l’epoca né il rapporto tra lingua, scuola e area di diffusione. La diffusione del Buddismo ricevette un notevole impulso nel III secolo a.C. quando Ashoka Maurya divenne imperatore dell'India intorno al 268 a.C.. Dopo una sanguinosa campagna sulla costa orientale, nella regione dell'attuale Orissa, provò rimorso e si convertì al Buddismo. Per il resto del suo lungo regno governò secondo i principi buddisti. Il resoconto di queste prime missioni si trova nelle iscrizioni in pietra che Ashoka lasciò in tutto il suo regno. Vennero fondate grandi università, come quella di Nālandā, vicino al sito dell'odierna Patna, che fiorì tra il VII e il XII secolo. Importanti centri di buddismo sorsero sia nel sud e sia nell'estremo nord-ovest. Subì una battuta d'arresto intorno al 450, quando una tribù dell'Asia centrale conosciuta come gli Unni bianchi, distrusse il buddismo. Durante la seconda metà del millennio le fortune del buddismo furono alterne, e alla fine del X secolo il nord fu nuovamente attaccato. Questa volta gli invasori erano Turchi musulmani che razziarono in cerca di bottino monasteri e simili. Nel 1192 una tribù turca stabilì il dominio sull'India settentrionale, la prima di una serie di dinastie musulmane note come Sultanato di Delhi. Nel XVI secolo, i Moghul inaugurarono un'era di relativa stabilità e tolleranza religiosa. La storia del buddismo nel resto dell'Asia può essere comodamente discussa in termini di nord e sud. In generale, la forma Mahāyāna del buddismo predomina nel nord e la tradizione degli anziani nel sud. Dal momento che solo una delle dodici scuole della tradizione degli Anziani sopravvive oggi, quella nota come Theravāda, d'ora in poi parlerò delle due principali forme di Buddhismo sopravvissute come Mahāyāna e Theravāda.
Secondo le cronache buddiste ivi conservate, il buddismo fu portato a Ceylon nel 250 a.C. da un monaco di nome Mahinda, un inviato dell'imperatore Ashoka. Mahinda e i suoi compagni monaci fondarono una comunità monastica presso il Mahāvihāra (“Grande Monastero”) nella capitale Anurādhapura. Fu in Sri Lanka, intorno all'80 a.C. che il Canone Pali fu messo per la prima volta per iscritto. Uno dei monaci più importanti fu Buddhaghosa, arrivato nel V secolo d.C.. Buddhaghosa raccolse e curò i primi commenti al canone e li tradusse in Pali. L'opera classica di Buddhaghosa, il Visuddhimagga o “Sentiero della purificazione”, un compendio di dottrina e pratica, è rimasta una pietra miliare della letteratura Theravāda.
Altri importanti Paesi Theravāda nel Sud-est asiatico sono il Myanmar e la Thailandia. Dal quinto al quindicesimo secolo, la potenza dominante nell'area era l'impero Khmer, in cui diverse forme di induismo e di Buddismo Mahāyāna erano popolari. Varie scuole di buddismo fiorirono fino a quando il re Anawrahta (1044-77) unificò il Paese conquistando la parte meridionale del Paese e diede la sua fedeltà al Theravāda, sebbene sia probabile che il Theravāda fosse dominante anche prima. Il theravāda si era da tempo insediato nel regno Mon di Haripuñjaya e il regno di Dvāravatı̄, e nell'XI secolo furono inviate missioni dal Myanmar nella regione. I Thai, che arrivarono nella regione nel XIII secolo, dopo essere stati sfollati dalla Cina dai mongoli, trovarono la tradizione Theravāda più congeniale rispetto alle elaborate forme di buddismo Mahāyāna che avevano conosciuto nel nord. La storia del buddismo in Cambogia, Laos e Vietnam non è dissimile.
Il buddismo si diffuse a nord dall'India all'Asia centrale e raggiunse la Cina verso la metà del I secolo. In questo periodo la successiva dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) aveva consolidato il potere cinese in Asia centrale, e i monaci buddisti viaggiavano con le carovane che percorrevano le vie della seta. Il confucianesimo dominante era in contrasto con certi pensieri del buddhismo come l'abbandono della famiglia e quindi le comunità buddhiste erano uno stato nello stato ed erano un problema di ordine politico-pubblico. I monaci si rifiutavano inoltre di inchinarsi davanti all'imperatore. D'altra parte, c'era molto del buddismo che attraeva i cinesi, in particolare domande legate alla morte e all'aldilà che il confucianesimo relegava in secondo piano. Il buddismo condivideva alcune somiglianze con un'altra filosofia cinese, il Taoismo, una forma di misticismo della natura e quindi poteva trovare terreno fertile. In alcune aree il buddismo e il taoismo si sovrapponevano, e la meditazione buddista sembrava orientata verso lo stesso obiettivo di quiete interiore e di “azione senza azione” (wu-wei) perseguito dal Taoismo. Una scuola di Buddismo cinese nota come Ch'an (l'antenato dello Zen giapponese), è nata da questa interazione.
Il buddismo vi giunse nel VI secolo passando per la Corea, ma
ma ha tratto gran parte della sua ispirazione dalla Cina continentale. Il periodo Heian (794-1185) ha visto lo sviluppo di scuole come l'eclettica Tendai e l'esoterica Shingon. Le scuole delle Terre Pure, forma distintiva del buddismo giapponese basata sulla devozione al Buddha Amida - iniziarono a svilupparsi in questo periodo e raggiunse il suo apogeo nel periodo Kamakura (1185-1333). Nichiren (1222-82) fondò un nuovo movimento religioso che faceva del Sūtra del Loto il centro della pratica cultuale. Invece di recitare il mantra Namu Amida Butsu o “Omaggio al Buddha Amida” per assicurarsi la rinascita nel paradiso di Amida, i seguaci di Nichiren recitavano il mantra Namu myōhō renge kyō che significa “Onore al Sūtra del Loto del Vero Dharma”. Il buddismo giapponese ha un forte orientamento sociale ed enfatizza i valori della comunità e del gruppo. Oltre alle scuole della Terra Pura e di Nichiren, la terza scuola più importante del buddismo giapponese è lo Zen. La parola “Zen” deriva dal sanscrito dhyāna che significa “trance”. e la meditazione svolge un ruolo centrale e avviene in maniera intuitiva non in maniera logica (satori). Tra i due rami principali dello Zen, la scuola Sōtō ritiene che la meditazione calmante sia tutto ciò che è necessario, mentre lo Zen Rinzai utilizza altre tecniche come fulcro della meditazione. La più nota è l'uso di indovinelli insolubili, noti come kō-an.
Il buddismo è entrato in Tibet solo nell'ottavo secolo. La forma di buddismo che vi fiorì è conosciuta come Tantra, Vajrayāna (“Il veicolo della folgore”) ), o per il frequente uso di formule e canti magici, Mantray (“Mantra”) formule e canti magici, Mantrayāna. Tantra fanno uso di mistici diagrammi (mandala) e formule magiche (mantra), e sono scritti in una misteriosa “lingua crepuscolare” (sandhyabhāsā) a cui solo gli iniziati hanno la chiave. L'iniziazione viene impartita da un guru (in tibetano: lama) che insegna il significato esoterico delle parole e dei simboli ai suoi studenti. I Tantra insegnano che qualsiasi cosa, anche il desiderio, può essere usata con profitto come mezzo per la liberazione. Le passioni vengono considerate non come malvagie, ma semplicemente come una potente forma di energia. Gran parte dell'arte e dell'iconografia tibetana ha un contenuto esplicitamente sessuale. La più influente scuola del buddismo tibetano fu il Gelug-pa fondato da Tsong-kha-pa nel XIV secolo. Si attengono rigorosamente alla Regola monastica che, tra i molti altri requisiti, insiste sul celibato per i monaci. Una scuola, Nying-ma-pa (“gli Antichi”), tuttavia, ammette una forma di sacerdozio sposato. Esiste poi la carica di Dalai (Oceano di saggezza) Lama che avrebbe il ruolo di potere spirituale e di potere temporale. Il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è stato costretto a fuggire dal Paese nel 1959 a causa dell'invasione cinese del 1950. Da allora risiede a Dharamsala, nel nord-ovest dell'India.