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Storia del pensiero buddhista 2022-23

Programma

Il programma è dedicato alla storia e alla storiografia del buddhismo in India e nel resto dell'Asia con particolare riferimento alla Cina e al Giappone. Nello specifico verranno indagate e messe a confronto le prospettive degli studi filologici, filosofico-religiosi e antropologici rispetto a una selezione di temi e termini rilevanti per lo studio del buddhismo in modo da fornire allo studente gli strumenti utili ad orientarsi nella letteratura specifica e ad approfondire in maniera critica e autonoma le proprie ricerche.

  • 14/11/2021 Introduzione agli argomenti del corso, presentazione della bibliografia e informazioni relative alle modalità d’esame e agli appelli previsti.
  • 15/11/2021 La storiografia buddhista: storia degli studi tra pregiudizi, luoghi comuni e revisioni.
  • 16/11/2021 Il Buddha: la biografia esemplare nella letteratura e nell’arte
  • 21/11/2021 La ricostruzione della vita del Buddha: tra mito e storia
  • 22/11/2021 L’insegnamento del Buddha nel contesto dell’India antica
  • 23/11/2021 Il buddhismo in India: lineamenti dello sviluppo
  • 28/11/2021 Il Mahāyāna
  • 29/11/2021 Modelli di diffusione del buddhismo in Asia
  • 30/11/2021 Il buddhismo in Cina: lineamenti dello sviluppo
  • 05/12/2021 Le scuole cinesi Huayan e Tiantai
  • 06/12/2021 Il buddhismo Chan
  • 07/12/2021 La diffusione del buddhismo in Giappone
  • 12/12/2021 Specificità del buddhismo giapponese
  • 13/12/2021 Il buddhismo Zen
  • 14/12/2021 Riepilogo dei temi trattati ed esercitazioni

Esame

non lo do quindi non mi interessa utile per il corso di arte

Testi e Bibliografia

  • D. Keown, Buddhismo, Torino, Einaudi, 1999.
  • “Theravāda”; “Mahāyāna” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.
  • D. Lopez, Curators of the Buddha. The Study of Buddhism Under Colonialism, Chicago–London, Chicago University Press, 1995, pp. 1-29. Sostituito da J. Silk, “Buddhist Studies”, in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004, pp. 94-101.
  • E. Zürcher, “The Impact of Buddhism on Chinese Culture in An Historical Perspective” in J. Silk (a cura di) Buddhism in China Collected Paper of Erik Zürcher, Leiden, Brill, 2013, pp. 339-351. Sostituito da E. Zürcher, “Buddhismo in Cina” in Enciclopedia delle religioni.
  • A.F. Wright, Buddhism in Chinese History, Stanford, Stanford University Press, 1959, pp. 3-20.
  • W.E. Deal e B. Ruppert, A Cultural History of Japanese Buddhism, Chichester, Wiley, 2015, pp. 1-133.
  • J. Kieschnick, “Introduction”, in The Impact of Buddhism On Chinese Material Culture, Princeton, Princeton University Press, 2003, pp. 1-23.

Lezioni

Introduzione di metodo

Gli studi sul buddhismo hanno avuto la tendenza a generalizzare molto e studiare singole parti non contestualizzandole nell'intero.1) Per molti aspetti ha molto senso provare a parlare di Buddhismi al plurale e non essenzializzare il tutto ad un unico blocco monolitico chiamato buddhismo.2) Questa mancata comprensione è spesso il frutto di un certo occidentalismo che ci porta a proiettare la nostra cultura e le nostre visioni sul e dell'altro, quindi a non avere un'analisi storica sensata dei fenomeni, ma percezioni soggettive. Un bomber nel fare l'analisi di ciò è Said in Orientalismo che mostra bene la nostra cecità culturale, non bisogna essere ingenui, ogni posizionamento e analisi porta con sè molto di noi e dice pure molto di noi.3)

È una religione?

Provare a dare una risposta a questa domanda, a definire cosa sia il buddhismo ci porta sin da subito indagare la domanda stessa: Cosa è una religione? quando si può parlare di religione e quando di filosofia, di scelta etica? Di solito leghiamo una religione all'esistenza di un Dio creatore, il buddha nega ciò, ma crede in spiriti e divinità, quindi è atea? allo stesso tempo deh, mi sembra che sia molto lontano dall'ateismo tipo quello marxista. Che fare? Alcuni hanno parlato di “religione non teistica”, ma in generale siamo abituati ad una definizione troppo stringente di religione.4) Ninian Smart ci consiglia di analizzare le religioni tutte secondo 7 dimensioni:5)

  • dimensione pratica e rituale
  • dimensione esperienziale e rituale
  • dimensione narrativa e mitica
  • dimensione dottrinale e filosofica
  • dimenzione etica e legale
  • dimensione sociale e istituzionale
  • dimensione materiale

Proviamo ad analizzarle passo dopo passo. Ogni dimensione è importante, esse sono sia correlate tra loro, sia possiamo zoommarle a seconda dei contesti, degli studi, dei vissuti.6)

Dimensione pratica e rituale

Altre religioni hanno pratiche più marcate, ma anche il buddhismo non è da meno in particolare in contesto monastico, sia a livello pubblico che privato. La testa rasata, la recita comunitaria delle regole monastiche (il pātimokkha) in momenti specifici, la festa kathina. I monaci non fanno niente a livello sacramentale, no intermediari, però ci sono ai funerali, per l'importanza dello stato d'animo e della morte in generale per la reincarnazione. Il contatto con tradizioni occidentali ha fatto nascere delle nuove cerimonie e allo stesso tempo influenzano riti occidentali.7)

Dimensione esperienziale ed emotiva

L'esperienza personale ed emotiva del Buddha storico è fondamentale, seguirne gli esempi. Buddhismo come corso di autotrasformazione mediante degli strumenti.8)

Dimensione narrativa e mistica

La forza dei miti nel buddhismo è forte, essi hanno un forte valore narrativo, sia metaforico che morale, storie locali etc…tutte utili a costruire un'immaginario, un tracciato, un'identità.9)

Dimensione dottrinale e filosofica

I buddhisti non parlano di buddhismo, ma parlano del Dharma (“Legge”) o al Buddha-sāsana (“insegnamenti del Buddha”). Gli insegnamenti dottrinali fondamentali sono contenuti in una serie di proposizioni interconnesse. La custodia e l'interpretazioni dei testi spetta agli ordini monastici, ci sono varie dimensioni una più mistica meditativa, altre più filosofiche e legate ai testi, etc etc.10)

Dimensione etica e legale

Al centro dell'etica buddista c'è il principio del non nuocere (ahimsā). Non sono al di fuori della polica, basti pensare alla resistenza pacifica e non violenta tibetana.11)

Dimensione sociale e istituzionale

Abbiamo monaci e discepoli devoti, ma non solo. È mutevole a seconda delle varie correnti la distinzione tra mondo laico e mondo monastico, non ha un unico capo, ma numerose scuole e assemblee, le comunità decidono in base al consenso.12)

Dimensione materiale

Ha dei luoghi sacri e dei luoghi di pellegrinagio, quindi manufatti fisici, importanti sono anche il testo scritto.13)

La storiografia buddhista: storia degli studi tra pregiudizi, luoghi comuni e revisioni

Gli studi buddisti, noti anche come Buddhology, sono lo studio accademico del buddismo. “Termine ombrello per l'indagine disinteressata o non apologetica su qualsiasi aspetto del buddismo o delle tradizioni buddiste.”14)

“gli studi sul buddismo hanno sempre assunto una prospettiva esterna, anche quando gli studiosi che li conducono sono essi stessi buddisti. Il campo è quindi un campo intrinsecamente etico, piuttosto che emico. Questo è ciò che separa gli studi sul buddismo, anche della Buddhologia, dalla pratica del Buddhismo, o da quella che oggi alcuni chiamano teologia buddista.15)

Sono una costola degli studi coloniali e post-coloniali e che di recente negli anni '90 hanno iniziato ad adoperare uno sguardo e un taglio critico.

Le informazioni sul buddhismo arrivano sin dal medioevo, però le informazioni sono sparse e intermittenti: tanti nomi per tante religioni diverse, non abbiamo una definione di buddhismo in quanto tale (non si parla nelle fonte di Buddha), ma definizioni vaghe come “religione degli idolacri”. Siamo noi a posteriori che lo capiamo non abbiamo unità nè omogeneità nel vocabolario:

  • XIII sec. missioni francescane nelle terre mongole (Guglielmo di Rubruck uno dei principali, egli fu un religioso fiammingo appartenente all’Ordine dei Frati Minori, missionario ed esploratore. Il suo resoconto del viaggio in Asia è uno dei capolavori della letteratura geografica medioevale), dove sono testimoni di dibattiti religiosi tra la tradizione sciamanica, le idee buddhiste e i cristiani nestoriani, poichè i sovrani mongoli sono molto aperti alle questioni religiose.
  • Marco Polo e con tutte le sue ambiguità i suoi scritti
  • dGesuiti in Asia (Matteo Ricci, Francesco Saverio, Ippolito Desideri)

Abbiamo come accennato in precedenza varie terminologie. Marco Polo: “Sergamon Borgani” ( ovvero Śākyamuni Burqan), XVII Matteo Ricci in Cina: “Foë” (Fo), XVII-XVIII secolo, missionari francesi nel Sud Est asiatico: “Sommona Codom” (śramana o Gautama), XVIII, enciclopedia francese da fonti dei gesuiti in Giappone: “Budsdo” (Butsu); “religion de Siaka” (Śākyamuni).

Queste informazioni vengono recepite da loro pari e non da studiosi e in Occidente non si capisce che si tratta della stessa religione. Abbiamo la fascinazione per l’Oriente nel XVIII secolo e l’Encyclopédie afferma: il buddhismo come moderna superstizione, la religione di Siaka o Xaca (Śākyamuni) o Budsdo (butsu). Abbiamo le prime attestazioni scritte di una definizione unitaria (budsdoisme), si capisce che si sta parlando della stessa persona e si conia un ismo, ovvero Budsoismo coniato a partire quindi dal termine giapponese e non dal sanscrito filologicamente rigoroso come è invece Buddha e e buddhismo (in Asia stessa non parlano di Buddhismo).

Abbiamo lo sviluppo degli imperi coloniali nel XIX secolo che alimentano lo studio delle lingue locali da parte occidentale affidato agli impiegati del governo coloniale e di rimbalzo vengono conosciute anche dagli studiosi e dal mondo accademico, ciò porta alla creazione in Europa del mito dell’India come “culla della civiltà”, infatti da lì si svilupperanno tutti gli studi sulle lingue indoeuropee e quindi l'India come corpo originario e primordiale. Questo mito inizia a creparsi quando si inizia ad approfondire la cultura religiosa indiana e gli occidentali la leggono come oscura, irrazionale, violenta e che non ha nulla a che vedere con gli sviluppi europei. Quindi abbiamo nella prima metà del XIX: inizio dello studio scientifico delle lingue orientali (sanscrito, spali, tibetano ecc.) e inizio studi a livello archeologico:

  • 1824 scoperta dei manoscritti nepalesi e tibetani da parte di Brian H. Hodgson
  • 1837 arrivo dei manoscritti a Parigi
  • 1844 Introduction à l’histoire du Buddhisme indien di Eugène Burnouf “buddhismo”, coniazione occidentale da Buddha: lo “svegliato” (budh-), appellativo di Siddhārtha Gautama Śākyamuni

Dalla fascinazione si passa alla scoperta di una civiltà degradata ma risollevata dai nuovi indoeuropei e dal colonialismo e all’induismo incomprensibile e irrazionale gli si contrappone la semplicità razionale del de buddhismo (semplicità=meno corrotto=più antico=più autentico). In maniera paternalistica gli europei vorrebbero riportare in auge il buddhismo in India e la scelta della fonte per la conoscenza del buddhismo sono le fonti canoniche. Burnouf studia le fonti pali e le presenta come la più antica tradizione buddhista, sia per la mole materiale di fonti, sia perchè anche in Asia alcune comunità monastiche presentano tale letteratura come la forma più antica di letteratura, inquinando la percezione occidentale. Gli studiosi e gli antropologi dell'Ottocento erano troppo in fissa con il comparativismo e da una preminenza delle fonti testuali canoniche, ovvero i testi sacri la cui autorità è riconosciuta dalla tradizone e sono il concentrato dell'autenticità. La preminenza assegnata ai testi a scapito delle pratiche religiose, delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche fu un riflesso della mentalità protestante degli studiosi. A smontare queste apparato di analisi fu in particolare J. Silk, “Buddhist Studies” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.

Bibliografia di riferimento per approfondimenti: W. Halbfass, India and Europe: An Essay in Understanding, 1988.

Come è stata ricostruita la storia del buddhismo? i Pregiudizi e limiti della storiografia precedente:

  • narrazioni delle varie tradizioni, non viene letta sul fatto che ogni narrazione tramandata risponde a esigenze di autoaffermazione e legittimazione
  • le fonti testuali canoniche venogno lette in maniera descrittiva e non descrittiva, quindi comparazione puramente filologiche, estrapolazioni fuori contesto
  • le pratiche devozionali odierne venivano lette come un proseguimento di quelle antiche, zero cambiamenti, linearità di tramandazione proprio grazie ai testi, base nessun contatto con l'esperienza diretta e vissuta.
  • le testimonianze artistiche/archeologiche dovevano confermare quello scritto nei testi, se ciò non avveniva, cortocircuito e gli studiosi ne facevaono un uso distorto ed è da questo che si è proprio partito.

Bibliografia di riferimento su questo tema:

  • G. Schopen, “Archaeology and Protestant Presuppositions”, History of Religions, 31, 1991, pp. 1-23.
  • Robin Coningham, “The Archaeology of Buddhism”, in T. Insoll (a cura di), Archaeology and World Religion, London and New York, Routledge, 2001, pp. 61-95 [In particolare: “Introduction”]

Materiali archeologici ed epigrafici hanno la caratteristica di essere databili, contestualizzabili, materiali non concepiti per circolare ed essere letti.

le fonti testuali canoniche invece sono difficilmente databili, già gli scritti pali stessi erano corrotti, ovvero erano note da versione manoscritte recenti e avevano un obiettivo normativo, non erano testi neutri, scritti per trasmettere un ideale.

Facciamo un esempio in cui la priorità delle fonti canoniche porti a pregiudizi e conseguenze di distorsione del fenomeno, ovvero la negazione delle prove archeologiche:

  • attraverso il testo, si può leggere che i monaci non potevano avere beni materiali, essi dovevano vivere delle offerte della comunità laica, si trovano oggetti con inciso il nome di monaci e lo si legge non come proprietà, ma come un'urna funeraria, si trova addirittura un salvadanaio nascosto e lo si spiega come nascondiglio segreto e si afferma che ad un certo punto il canone non viene più seguito alla lettera e alimenta la narrazione di un'epoca d'oro del buddhismo e poi di una sua corruzione. Bibliografia di riferimento: G. Schopen, “What’s in a Name: The Religious Function of Early Donative Inscriptions” in V. Dehejia (ed.). Unseen

Presence, Marg Pubs.,1996, pp. 58-73.

  • si trovano delle iscrizioni in cui monaci e monache hanno donato per costruire il monumento di culto, ovviamente tale donazione viene letta come il frutto della mendicazione. Tale fine di queste donazioni era letta attraverso il karmen ovvero non si trattava di trasferire il merito per il loro dono a qualcun altro, ma di formulare intenzioni che il meccanismo della retribuzione degli atti renderebbe inoperante. Schopen vede delle iscrizioni, alcune sono illegibili o c'è solo scritto il titolo, la professione, ma in altre anche il motivo che poteva essere per qualcun'altro o per la collettività. le testimonianze epigrafiche provenienti da varie parti del subcontinente e databili tra il III e il I sec. a.C. provano una situazione diversa da quella contenuta nelle fonti testuali.

La ricostruzione della realtà storica del monachesimo attraverso i materiali epigrafici: G. Schopen e l’esempio della stele di Bodhgayā. L’iscrizione del XIII secolo ricorda il dono di un villaggio al Vajrāsana (il seggio dell’Illuminazione) per il monastero locale e l’affidamento del dono al monaco Mangalasvāmin. Il testo e l’immagine sottostante ammoniscono, con parole ingiuriose, chi tenti di appropriarsi della donazione.

I nomi delle iscrizioni delle donazioni sono importanti perchè dicono molto della percezione del Buddha da parte dei fedeli, ovvero lo venerano quasi più come un santo che come un maestro spirituale e modello umano, esse non usano le lingue della popolazione locale, ma una lingua comune che veicolava il messaggio buddhista. Tutti pagavano sia la lastra che l'incisore, il nome era importante perchè rappresentava l'identità, l'essenza del donatore che così facendo si rendeva il più vicino possible al Buddha, perchè erano lastre non a caso, ma negli stupa dove venivano conservate le reliquie del Buddha, spesso infatti il nome era in contatto con la terra e quindi con il Buddha stesso.

Quando la narrazione tradizionale si fa storia: il caso Chan/Zen

Gli elementi della “narrazione interna”, il Buddha, il fiore e Bodhidharma. Il modello genealogico, la polemica antiscolastica e antidiscorsiva. Non “una” tradizione interpretativa, ma “la” tradizione. Il Chan è il buddhismo e i suoi insegnamenti e sono gli nsegnamenti autenticamente buddhisti. Dai testi all’aneddoto. Il Buddha = il maestro. Invenzione di una narrazione e di un lignaggio ininterrotto. Venuto alla ribalta con il libro di Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco.

Dalla ricostruzione arbitraria alla reinvenzione della pratica

Sārnāth

Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito come luogo del Primo sermone: nessuna Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; i numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika.

Il Buddha: la biografia esemplare nella letteratura e nell’arte

La vita di Siddhārtha: una agiografia come vita esemplare:

  • nascita
  • giovinezza contrassegnata dall’eccellenza e dalla vita agiata
  • esperienza della sofferenza (vecchiaia, malattia, i morte) crisi esistenziale
  • abbandono della casa paterna e inizio della vita ascetica
  • fallimento degli insegnamenti e delle pratiche tradizionali
  • l'esperienza del risveglio, il primo sermone, fondazione della comunità e inizio del magistero
  • morte

S D. Keown, Buddhismo, pp. 17-30

Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī, aggiunte posteriori a sottolineare la nascita eccezionale. La sua famiglia di origine (Śākya significa “potenti”) si dice fosse ricca: una stirpe guerriera che dominava il paese. Il padre di Siddartha, il rāja Suddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord. La madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.

Suddhodana e Māyā erano sposati da molti anni e non avevano avuto figli. Nel Buddhacarita si racconta che Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le penetrò nel corpo senza alcun dolore e ricevette nel grembo, “senza alcuna impurità”. Elefante bianco con sei zanne che indica il fianco destro della donna a indicare una creatura straordinaria non comune. Per l'India antica erano animali rari e preziosi, se un sovrano lo vedeva, era un segno di buon auspicio, lo stesso governo militare nel Myanmar lo utilizzarono per legittimarsi. Al risveglio racconta il sogno al marito che consulta degli interpreti che gli dicono che nascerà un bambino grandioso. La gravidanza è piena di eventi miracolosi e straordinari, a sottolinere sia il caratterre divino del BUddha (Dio), sia il suo carattere superiore agli altri uomini (re), ma anche la sua natura umana (uomo). Lei, vicino al nono mese va a trovare i suoi genitori e partorisce nel viaggio, lei si allunga per sentire il profumo di un fiore nella foresta e partorisce senza dolore dal fianco destro (segno di positività). Buddha nacque pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso. C'è un aggiunta posteriore in cui viene accolto dalle divinità antiche del subcontinente indiano. Il bambino viene presentato al padre e dopo sette giorni muore e viene allevato dalla seconda moglie, ovvero una sorella della madre, Pajāpatī. Sempre secondo il Buddhacarita (canto I) dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una cerimonia di buon auspicio e lo portano acnhe al santuario locale dove sono gli dei locali a rendergli omaggio e non viceversa. Durante questa cerimonia si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un Monarca universale, oppure un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un Buddha.Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti.Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito. ricevette il nome di Siddharta (=“quegli che ha raggiunto lo scopo”) Gautama (“l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya”). Il ragazzo cresce eccellendo in ogni attività e si sposa presto, con base rito indiano, all'età di sedici anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula (che significa catene, quelle che intrappolano Gautama). Viene totalmente allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in qualità di erede al trono, vive in una bolla lontano dalla vita reale. Si parla poi dell'incidente della festa di primavera, in cui viene portato nei campi, dove cade in una trance meditativa spontanea e inizia ad osservare la fatica e il dolore e la catena di violenza spietata e ineluttabile che è la vita. Fa esperienza sia della sofferenza e sia dell'arresto temporale dovuto alla meditazione. A 29 anni, ignaro della realtà che si presentava fuori della reggia, uscito dal palazzo reale paterno per vedere la realtà del mondo, testimoniò la crudeltà della vita in un modo che lo lasciò attonito. Incontrando un vecchio, un malato e un morto (altre fonti narrano di un funerale), comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo, tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri. Capì che la sua era una prigione dorata e cominciò interiormente a rifiutarne agi e ricchezze. Poco dopo essersi imbattuto in un monaco mendicante, calmo e sereno, decise di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la liberazione. Altro episodio aggiunto dopo è proprio che la scelta di abbandonare tutto e tutti è stata fatta dopo una festa, in cui lui guarda delle danzatrici, che ai suoi occhi non sono sensuali , ma corpi stanchi accasciati come cadaveri. Ineluttabilità della transitorialità della vita, sogno della coscienza, sta decidendo di andarsene. Una notte, mentre la reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica. Fuga segreta, gli dei intervengono per non far sentire gli zoccoli del cavallo sul selciato. Arrivarono fino al limitare della foresta, luogo dell'ignoto, e i 3 si lasciano, il cavallo morirà sul colpo per il dolore della spearazione. Si cambia le vesti ricche con quelle giallo e rosse di un cacciatore, i colori della rinuncia. Turbante e gioielli li lascia allo scudiero per riportarli a casa, si taglia la lunga chioma di capelli e si avventura nella foresta alla ricerca di maestri, sperimentando l'India filosofica. Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nella regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la ākiñcaññayatana, la “sfera di nullità” che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa. Insoddisfatto del conseguimento, Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che, esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né non-percezione. Gautama si rende conto che però queste pratiche meditative ti danno si poteri psichici, ma sono bolle che ad una certa finiscono e si ritorna al problema. Lascia il maestro per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi chilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto a sua volta maestro spirituale. Le pratiche ascetiche, dietetiche e meditative che sviluppò in questo periodo non sono note, anche se la tradizione successiva le descrive particolarmente austere.

Ad un certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione, tornò a una dieta normale (dopo aver sognato la madre che lo intimava di cambiare percorso) accettando una tazza di riso bollito nel latte offertagli da una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò la perdita dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza e lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni, non spossato da fame, sete e sofferenze autoinflitte. Prese tale ciotola di riso e si autodisse: se risale le correnti del fiume devo trovare un'altra strada da solo, e così la tazza fece. A 35 anni, nel 530 a.C., dopo sette settimane di profondo raccoglimento ininterrotto, in una notte di luna piena del mese di maggio, seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya[22] a gambe incrociate nella posizione del loto, a lui si spalancò l'illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a raggiungere il Nirvāṇa. Il Buddha conseguì, con la meditazione, livelli sempre maggiori di consapevolezza Māra il dio del desiderio, cercò prima di sedurre Siddharta tramite l'apparizione delle sue tre figlie, Tanha (lett.”Bramosia“), Arati (lett.”Noia“) e Raga (lett.”Passione“), poi cercò di spaventarlo con l'apparizione di dieci eserciti di esseri mostruosi (corrispondenti ai dieci tipi di ostacoli della vita spirituale):

  • Piacere sensuale;
  • Frustrazione;
  • Fame e sete;
  • Desiderio;
  • Pigrizia;
  • Terrore;
  • Dubbio;
  • resunzione o ingratitudine;
  • Guadagno, ricompensa, onori, e fama ingiustamente ricevuti.
  • Esaltazione di sé stessi e denigrazione del prossimo.

Mara è il tentatore, colui che distrae gli esseri dalla pratica rivolta alla Liberazione dal Saṃsāra, rendendo la vita mondana seducente o facendo sembrare il negativo come positivo. Esso rappresenta, più in generale, la Morte spirituale, tutto ciò che ostacola la via verso la Bodhi.

Durante la prima veglia della notte ebbe una visione di tutte le sue vite passate che lo portarono a comprendere il ciclo di vita, morte e rinascita, il Samsara, vedere la sua esistenza nel nesso causale azione-conseguenza. Nella seconda veglia vide la legge del kàrman all’opera, ovvero il nesso causa-effetto a livello universale, il frutto delle azioni compiute da ogni vivente, che influisce sia sulla diversità della rinascita nella vita susseguente, sia sulle gioie e i dolori nel corso di essa; sinon. quindi di «destino», concepito però non come forza arcana e misteriosa, ma come complesso di situazioni che l’uomo si crea mediante il suo operato. È il debito karmico . Durante la terza, le ore poco prima dell’alba, si trasformò. Divenne un Buddha, un risvegliato, colui che era riuscito a destarsi dall’ignoranza e dal torpore. Coglie la causa del perchè fonzionano così le cose, ovvero vede la cecità dell'uomo rispetto alle condizioni dell'esistenza. Se tutto è impermanente, tutto è privo di dolore, perchè seguiamo i desideri? Perchè siamo bramosi, trishna. L'inquietudine è il sintomo della nostra infelicità. Gautama soddsifatto tocca terra e chiama la dea della Terra a testimonianza di ciò che è successo. Il Buddha giunse infine a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā, che avevano intenzione di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di condividere quanto aveva scoperto.

Le parole che pronunciò allora si sono conservate nel primo breve sūtra, il Dhammacakkappavattana-vagga Sutta (La messa in moto della Ruota della Dottrina), che si apre con la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione, doloroso, volgare e dannoso.

Quella del Buddha si presenta invece come una “Via di mezzo […] apportatrice di chiara visione e di conoscenza” che “conduce alla calma, alla conoscenza trascendente, al risveglio, al nibbāna”

Quindi il Buddha analizza il contenuto della “via di mezzo”, illustrando l'Ottuplice Sentiero, la base del comportamento etico quale causa necessaria per il conseguimento del risveglio. Ma, procedendo a ritroso, il Buddha spiega il motivo per cui questo Sentiero apporta l'approdo alla sponda opposta al Saṃsāra: questo è dettato dalle Quattro nobili verità.

La prima delle Quattro verità è quella del dolore “l'unione con quel che non si ama è dolore, la separazione da quel che si ama è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore”. Quindi la combinazione dell'impermanenza dell'esistente e l'attaccamento è la causa del dolore, la seconda verità. Questa sarebbe poi stata ampiamente discussa e analizzata dal Buddha nel corso di tutta la sua predicazione, fino a trovarne la formalizzazione nella paṭicca samuppāda, la catena della coproduzione condizionata, in cui ogni causa ha un effetto, una spirale apparentemente invincibile.

Ma la distruzione della schiavitù del dolore è possibile, la terza verità: la liberazione è possibile. E come è il tema della quarta verità, che rimanda al Ottuplice Sentiero da cui si era partiti.

Il Buddha quindi proclama che ciascuna di queste verità è stata da lui riconosciuta, compresa e visualizzata, e questo triplice momento della quadripartizione della verità lo ha portato al “supremo perfetto risveglio”

A questo punto Añña Kondañña divenne Arhat ed esclamò: “tutto quello che nasce è destinato a perire!” e gli dei ctoni e di tutti i paradisi gridarono di gioia, il sistema dei diecimila mondi ebbe un sussulto e apparve un grandioso splendore: la ruota del Dharma era stata avviata.

Añña Kondañña divenne primo Bhikkhu a essere ordinato, con la celebre esclamazione del Buddha “Ehi Bhikkhu!” (“Vieni monaco!”) che diverrà la formula tradizionale di ordinazione buddhista, e dando così origine al Saṅgha.

La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che poi prese la forma di Induismo) e dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il Dharma. Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha. Giunto nei pressi di Vaiśālī fu invitato a pranzo dalla cortigiana Amarpālī, assieme a tutti i monaci, rifiutando un analogo invito dei nobili Lichchavi, che avevano rivolto l'invito solo successivamente.

Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda. Lì il Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi principali della sua dottrina. Giunto a Pāvā fu invitato a pranzo da un certo Cunda, un fabbro, mangia della carne avariata, ma non si rifiuta del cibo offerto.

Lasciata la casa di Cunda e diretto a Kuśināgara il Buddha si sentì male e, sedutosi, chiese ad Ānanda di procurargli dell'acqua. Secondo la tradizione, Siddharta Gautama morì a Kuśināgara, in India, a ottant'anni, nel 486 a.C. circondato dai suoi discepoli, tra i quali l'affezionato attendente prediletto Ānanda, al quale lasciò le sue ultime disposizioni. Lui scegli di morire, progressio deterioramento psicofisico, Il parinirvāṇa indica la cessazione dell'esistenza dei cinque aggregati che costituiscono l'esistenza psicofisica dell'individuo, alla morte di un Buddha o di un arhat. È quindi sinonimo della estinzione di un Buddha o di un maestro illuminato. Tradizionalmente si riportano le sue ultime parole: Ricordate, o monaci, queste mie parole: tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi! Dedicatevi con diligenza alla vostra propria salvezza!

Siate isola per voi stessi, l'importante è l'insegnamento lasciato.

Quindi il Buddha si stese vòlto a settentrione, reclinato sul fianco destro, e spirò.

La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra. La cerimonia e il funerale erano degli di un sovrano universale, questo diede il tempo a Mahākassapa, il più autorevole dei monaci dopo la morte del maestro, di giungere a Kuśināgara e prendere parte ai riti funebri. La pira l'accese lui stesso, sfiornadogli i piedi, simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire un Buddha. Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara. La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene. Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.

Oggi cosa attira agli studiosi di questa storia?

  • Intanto che possiamo individuare due nuclei da cui sono nate queste storie, ovvero quello della rinuncia-risveglio e gli ultimi giorni prima della morte
  • È un'agiografia scritta tra il I e il II sec. d.C. e le rappresentazioni figurative precedono le versioni letterarie
  • abbiamo solo frammenti e non letture complete e unitarie
  • Dibattito sui pellegrinaggi: Prima avvenuta la pratica dei pellegrinaggi e poi narrazione della vita, o viceversa? Prima forse i luoghi erano già importanti, poi arrivano dei pellegrinaggi più consistenti e organizzati e successivamente racconto unitario.

La riscoperta dei luoghi santi del buddhismo e la ricostruione della biografia del Buddha

Ci sono due grandi orientamenti:

  • corrente storicista/orientalista: H. Oldenberg (1881) e T.W. Rhys Davids. Vedevano la biografia del Buddha come la biografia di un personaggio storico-politico, lo leggono come un riformatore della società indiana, B. R. Ambedkar leggeva un riscatto delle classe inferiori con il buddhismo.
  • corrente mitologica/simbolica/cosmologica: H. Kern, E. Senart (1875, vede la vita di un Buddha come un mito solare legato ai culti iranici antichi, recupera elementi del passato, ma del contesto culturale e storico di riferimento, non c'è una cesura netta tra il prima e il dopo, non si può esauire la figura del Buddha nel mito), A. K. Coomaraswamy (è indiano ma con cultura anglofona, collega le tradizioni precedenti al Buddhismo, insistenza dellìimportanza degli alberi come Yaksha e la madre stessa del Buddha come una Yaksi. In occidente ci sono state ricostruzione della biografia del Buddha, in particolare il successo del poema vittoriano di E. Arnold, Light of Asia del 1979, si ispira ad una tradizione non canonica del X sec d.C., il Lalitavistara, testo sanscrito, ma tradotto dal tibetano

Poi abbiamo delle biografie e racconti dei pellegrini cinesi come strumenti per l'identificazione dei luoghi.

Alexander Cunningham (1814-1893) il maschio basic occidentale che il king dell'archeologia monumentale e del Rinascimento buddhista.

É. Lamotte, tenta di far affiorare la biografia del Buddha storico dai testi “è un'impresa senza speranza” (Histoire du Bouddhisme indien, 1958)

Oggi? Tendenza a partire dalla metà del XX secolo, studiare i racconti biografici nella loro interezza senza tentare di distinguere tra storia e leggenda. Tenere di conto di come viene raccontata la vita del Buddha nelle comunità monastiche, essa è una storia esemplare e questo processo agiografico non nasce subito, possiamo immaginare una memoria storica orale e poi successivamente arricchita.

Abbiamo un assenza di un'unica biografia canonica, ma molteplicità di informazioni biografiche contenute in numerosi testi della letteratura canonica (sutra e vinaya), testi autonomi della letteratura buddhista in sanscrito (Buddhacarita, Lalitavistara, Mahāvastu), le biografie del canone cinese e del canone tibetano, materiali eterogenei che si ofrrono a interpretazioni differenti.

Tendenze recenti degli studi sulle narrazioni biografiche del Buddha:

  • Comparazione sistematica di tutte le fonti canoniche o delle fonti disponibili, frammenti per ricostruire un racconto originario (A. Bareau 1963)
  • Comparizione delle fonti letterarie e delle fonti iconografiche (D. Schlingloff 1988)
  • Comparazione sincronica delle fonti (Strong, 2004, 2009)

la questione della data:

  • Cronologia lunga, fondata sulle cronache dello Śrī Lanka (Mahāvaṃsa), nascita del Buddha 298 anni prima dell’incoronazione di Aśoka (326 a.C., secondo le cronache). NASCITA: 624 a.C. MORTE: 544. Correzione occidentale: Aśoka (268 a.C.). NASCITA: 566 MORTE: 486.
  • Cronologia corta, fondata su fonti indiane (e relative traduzioni cinesi e tibetane). Morte del Buddha 100 anni prima dell’incoronazione di Aśoka (268 a.C.). NASCITA: 448 a.C. MORTE: 368 a.C. (Heinz Bechert).

nessuna testimonianza archeologica chiaramente legata al buddhismo risale a un’epoca anteriore al III sec. a.C.

Riferimenti bibliografici: H. Bechert (a cura di), The Dating of the Historical Buddha, 3 voll., 1991-97.

la questione dei luoghi: l la tradizione del pellegrinaggio nei luoghi “della vita del Buddha” e lo sviluppo della narrazione agiografica si sono sviluppate Parallelamente intrecciandosi e influenzandosi reciprocamente. Il racconto biografico celebra alcuni siti come i luoghi di celebri eventi della vita del Buddha, d’altra parte altri siti significativi a vario titolo (per la particolarità del paesaggio o per il legame con leggende locali) confluiscono nella geografia sacra buddhista determinando un ampliamento del racconto biografico che si arricchisce di nuovi elementi.la prima testimonianza del collegamento del Buddha con alcuni luoghi del pellegrinaggio e la testimonianza del pellegrinaggio di Aśoka a Lumbinī e, forse, a Kuśinagarī datano al III secolo a.C.

Il contesto della religiosità brahmanica all’epoca del Buddha:

  • La dimensione religiosa incentrata sul rito (sacrificio), compito che appartiene ai sacerdoti (brāhmaṇa)
  • la partecipazione alla vita religiosa si configura come una rigida ortoprassi, attenta alla purezza rituale (riti di purificazione) e al compimento di ciò che previsto per ciascuno dalla propria nascita; l’azione rituale è valida solo se rispetta parametri formali; separazione dalla partecipazione diretta alla dimensione religiosa

Figure e idee diffuse:

  • śramaṇa, “asceta”, ricerca la verità solo con il proprio sforzo e per esperienza diretta; rifiuto dell’esteriorità e ortoprassi brahmanica;
  • karman, l’azione rituale nel buddhismo viene intesa in senso morale, è innanzitutto “intenzione”, “volizione”; l’atto intenzionale anche se non messo in pratica è gravido di conseguenze.
  • saṃsāra, il ciclo delle nascite, morti e rinascite

Storicità del racconto:

  • Fonti testuali compilate a secoli di distanza dalla vita del Buddha
  • Evidenze archeologiche che risalgono non oltre il III sec. a.C.
  • Testimonianze artistiche ispirate alla vita del Buddha a partire dal I sec. a.C. (Bhārhut) e I d.C. (arte del Gandhāra)

I mahāsthāna (i “grandi luoghi”)

La dinastia Maurya (323-185 a.C)

Aśoka(268-232 a.C.)

  • Promozione del buddhismo
  • Attività di propaganda (concili, editti, distribuzione delle reliquie)
  • Inizio dell’attività artistica (architettura monumentale: stūpa)

Lumbinī:

  • Evidenze epigrafiche e archeologiche per l’identificazione del sito con il luogo della nascita del Buddha: la colonna di Aśoka iscritta
  • Scavi non controllati, a partire dagli anni '30 a Lumbinī: distruzione del deposito archeologico e delle fondazioni delle strutture antiche.
  • Altri monumenti rinvenuti nel sito:
  • fondazioni di un tempio dedicato a Māyādevī
  • rilievo in pietra raffigurante la nascita

Bodhgayā:

  • Evidenze archeologiche: nel sito non restano testimonianze risalenti a periodi anteriori al II secolo a.C. La tradizione fa risalire ad Aśoka la costruzione del tempio, le cui vestigia attuali risalgono però al XIX secolo. Numerosi i riferimenti materiali agli eventi dell’illuminazione risalenti a vari periodi:
    • l’area è segnata dall’albero dell’illuminazione (Ficus religiosa) e dal bodhimaṇḍa/vajrāsana (il trono di diamante): piattaforma in pietra risalente al II secolo a.C.
    • il luogo dove il Buddha rimase a contemplare l’albero dell’illuminazione nella II settimana dopo il risveglio
    • cankrama, sentiero percorso dal Buddha in meditazione nella III settimana dal risveglio ricordato da simboli in pietra (XIX secolo)
    • ratnagṛha il luogo dove il corpo del Buddha emise raggi di luce nella IV settimana
  • Evidenze letterarie:
    • Mahāparinibbānasutta
    • Aśokāvadāna

Sārnāth:

  • Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito: nessuna
  • Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika

Kuśinagarī:

  • Identificazione sulla base del testo di un pellegrino cinese, il monaco Xuanzang, che nel VII secolo visita il sito e descrive la presenza di due colonne iscritte di Aśoka, L’identificazione si regge inoltre sulla presenza di una scultura monumentale, con un’iscrizione risalente al V secolo che raffigura il Buddha nel parinirvāṇa. L’attribuzione dello stūpa ad Aśoka non è supportata dalla datazione del monumento la cui parte più interna risalirebbe al I secolo d.C.

L’archeologia ha portato alla luce siti e opere d’arte connesse chiaramente con il Buddha ma si tratta di testimonianze posteriori di alcuni secoli dalla sua esistenza.

Usare fonti letterarie tarde per ricostruire eventi ben più antichi è un’operazione rischiosa (e metodologicamente sbagliata).

È d’altra parte condiviso che tutte queste testimonianze si riferiscano a una figura storica reale vissuta in qualche momento intorno alla metà del I millennio a.C.

Le quattro nobili verità: una diagnosi della condizione universale

La formulazione classica delle “quattro nobili verità”, è esposta nel “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” (Dharmacakrapravartana Sūtra, sans., Dhammacakkappavattana Sutta, pāli). Esse sono strutturate secondo un'indagine medica:

  • la prima verità è la diagnosi
  • la seconda verità è l'analisi eziologica
  • la terza verità è l'analisi di una possibile cura
  • la quarta verità è l'attuazione della cura

Esse costituiscono il Dharma ermine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati. Può essere tradotto come “dovere”, “legge”, “legge cosmica”, “legge naturale”, oppure “il modo in cui le cose sono”. Per l'induismo è la norma che regge il mondo: rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell'universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito, per esempio il non essere violento e la coerenza di postura in pensiero e azione. Nel buddhismo, possiede l'ulteriore significato di Legge universale naturale, ovvero le regole in cui il saṃsāra segue il suo corso, indica gli insegnamenti del Buddha, a partire dall'origine del duḥkha (la sofferenza), la pratica di tali insegnamenti, la via verso l'Illuminazione e di conseguenza il Buddhismo stesso.

Qual è il problema centrale di pensiero nel subcontinente indiano? era che agire ci carica di debito karmico

Il karman è un “principio universale” secondo il quale un'“azione virtuosa volontaria” genera una o più rinascite positive, mentre un'azione “non virtuosa volontaria” (che produce sofferenza) genera rinascite negative. Il karma, dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del saṃsāra poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà in una qualche “condanna” nelle vite future. Quando si compie (o si desidera di compiere) un'azione non virtuosa, si depositano nella vita stessa dei “semi” o “residui” (sans. vāsanā) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando si compie un'azione virtuosa invece, si produce karma positivo. Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel samsāra. Esiste però un tipo di karma che non è né positivo né negativo, quello che porta alla “liberazione” (Vimukti) ed è indicato come aśukla avipāka karma karmaḳsayāya saṃvartate. Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di “semi del karma” che, finché non saranno esauriti, li costringeranno a permanere nel ciclo del samsāra. Questi “semi” sono frutto di azioni compiute in innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono essere distrutti con il raggiungimento dell'“illuminazione” (Bodhi). Con l'estinzione del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al karma e quindi al samsāra e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo attribuito alla dottrina del karma varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste.

Nella vita degli esseri senzienti (sanscrito sattva, pāli satta, cin. 衆生 zhòngshēng, giapp. shūjō, tib. sems-can), tra cui l'essere umano, è insita la “sofferenza” (san. duḥkha, pāli dukkha, cin. 苦 kǔ, giapp. ku, tib. sdug-bsngal). Tale esperienza del dolore riguarda anche i momenti di “appagamento” e “serenità” in quanto essi stessi impermanenti. Nei testi canonici il Buddha Shakyamuni individua otto tipi di dolore:

  • Il dolore della nascita, causato dalle caratteristiche del parto e dal fatto di generare le sofferenze future.
  • Il dolore della vecchiaia, che indica l'aspetto di degrado dell'impermanenza.
  • Il dolore della malattia, determinato dallo squilibrio fisico.
  • Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.
  • Il dolore causato dall'essere vicini a ciò che non “piace”.
  • Il dolore causato dall'essere lontani da ciò che si “desidera”.
  • Il dolore causato dal non “ottenere” ciò che si “desidera”.
  • Il dolore causato dai cinque skandha (o aggregati), ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. Questi sono: il corpo, (rūpa), quale manifestazione dei 4 elementi terra, aria, fuoco e acqua; le sensazioni (vedanā); le percezioni (saññā); le formazioni mentali (sankhāra); la coscienza (viññāna), ed essi sono la novità specifica del buddhismo all'interno del pensiero induista.

Questa lista di otto dolori viene riassunta in tre categorie (san. tri-duḥkhatā, pāli tidukkhatā, cin. 三苦 sānkǔ, giapp. sanku, tib. sdug bsngal gsum):

  • Dolore in quanto tale (san. duḥkha duḥkhatā, pāli dukkha dukkhatā, cin. 苦苦 kǔkǔ, giapp. kuku, tib. sdug-bsngal-gyi sdug-bsngal). Questa categoria riassume i dolori inerenti alla nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte. Ma anche quelli riguardanti all'essere uniti a ciò che non si desidera e a quelli procurati nel cercare di fuggire lo stesso dolore.
  • Dolore per ciò che muta (san. vipariṇama duḥkhatā, pāli viparinama dukkhatā, cin. 壞苦 huài kǔ, giapp. e ku, tib. 'gyur-ba'i sdug-bsngal). In questa categoria vengono riassunte le sofferenze procurate dall'impermanenza come quelli dell'essere separati da ciò che si desidera o quelli generati da non ottenere ciò che si brama.
  • Dolore generato dall'esistenza (san. saṃskāra duḥkhatā, pāli saṃkhāra dukkhatā, cin. 行苦 xíngkǔ, giapp. gyōku, tib. khyab-pa 'dubyed-ky sdug-bsngal). In questa categoria vengono elencati i dolori relativi all'insoddisfazione perenne procurata dall'esistenza nel saṃsāra: la frustrazione, l'inutilità di numerose nostre attività. Queste sofferenze sono collegate ai cinque skandha (o aggregati) e ai relativi attaccamenti.

Il “dolore” affligge l'uomo a motivo dell'impermanenza sia propria che di tutto ciò che sperimenta e conosce in vita, per effetto della sua nascita immersa nel saṃsāra e per l'adesione alla credenza in un sé imperituro. Questa sofferenza si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama (contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi sgradevoli ecc.), come pure è percepita quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama o in cui ci si diletta, o ancora quando si risente di un disagio esistenziale derivante dallo scontrarsi con una realtà che non soddisfa la propria adesione all'idea di un sé solido, affidabile ed imperituro. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del “dolore”. Più in generale, la constatazione che viene fatta nella “Prima nobile verità” è che esiste nella vita dell'uomo una “sofferenza” associata indistricatamente all'essere nel mondo un mutevole «composto di aggregati».

Sento il prurito, allora mi gratto, nostro obiettivo è sentire il prurito non rispondere subito alla sensazione, ma riflettere sull'effetto e sul fatto che muta e dopo un po' passa. Questo esempio banale sta ad indicare che tutte le esperienze portano della sofferenza, noi reifichiamo le emozioni, ma esse non esistono in quanto tali, non esiste il dolore, la rabbia, la felicità in sè e per sè, ma sono stati transitori. Anche il corpo non esiste in sè per sè, ma solo quando lo percepiamo, siamo aggregati di elementi che esperiscono flussi di esperienza. Il flusso è tenuto insieme dal concatenarsi carmico che lega le esperienze e le vite successive e precedenti.

Come era concepita la liberazione nel pensiero filosofico indiano?

l termine sanscrito di genere maschile mokṣa, così come il termine sanscrito femminile avente il medesimo significato mukti, indicano in questa lingua la “liberazione” dal ciclo di nascita-morte, dalla sofferente trasmigrazione, propria del saṃsāra. Ambedue i termini originano dal verbo sanscrito muc avente il significato di “liberarsi”.

Come abbiamo visto, la nozione di “liberazione” dal saṃsāra non attiene al “vedismo”, ovvero alla religione antica dell'India, compendiata nei suoi testi religiosi dei Veda e dei Brāhmaṇa, il quale persegue essenzialmente la bhukti, la felicità terrena, quanto piuttosto origina dai testi delle Upaniṣad (il termine qui usato è mukti; mentre nella Chāndogya Upaniṣad, VII, 26,2, è il composto vipramokṣa, dallo stesso significato) e si diffonde nel VI secolo a.C., contemporaneamente al buddhismo e al giainismo.

Tale nozione di “liberazione”, espressa con termini sempre derivanti dal verbo muc, verrà successivamente approfondita da importanti testi induisti quali la Bhagavadgītā e il Manusmṛti .

In ambito delle filosofie yogiche il termine utilizzato per indicare la liberazione è invece apavarga nel significato di “abbandono”, “fuga” dal saṃsāra. Mentre la filosofia sāṃkhya predilige il termine kaivalya col significato di isolamento del puruṣa liberatosi dalla prakṛti.

Le tradizioni ascetiche predicano la liberazione in vita e non dopo la morte del corpo, nel qual caso tale raggiungimento viene indicato con il termine jīvanmukta (“liberato in vita”).

A partire dai commentari del Brahmasūtra propri della medievale filosofia Vedānta, il termine più diffuso diviene mokṣa.

Sono differenti le “vie” di “liberazione” dal saṃsāra che il complesso religioso che va sotto il nome di “Induismo” offre al suo praticante (cfr. ad esempio le darśana), e queste possono essere approfondite nelle voci delle relative scuole e insegnamenti. In generale attraverso la meditazione si arriva a progressivi stati di coscienza rarefatti, esperire “a togliere”, ma non è una condizione permanente e sta lì il problema del buddhismo.

La seconda verità è che il “dolore” non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama (sanscrito tṛṣṇā, pāli taṇhā, cin. 愛 ài, giapp. ai, tib. sred pa), per ciò che non è soddisfacente e questo genera attaccamento. Si manifesta nelle tre forme di:

  • kāmatṛṣṇā (pāli kāmataṇhā, cin. 欲愛 yùài, giapp. yoku ai, tib. 'dod pa la 'dun pa) o “brama di oggetti sensuali” (piaceri in senso lato);
  • bhavatṛṣṇā (pāli bhavataṇhā, cin. 有愛 yǒuài, giapp. u ai, tib. srid pa'i sred pa) o “brama di esistere” (di potenziare il proprio ego);
  • vibhavatṛṣṇā (pāli vibhavataṇhā, cin. 無有愛 wúyǒuài, giapp. mu u ai, tib. 'jig pa la sred pa) o “brama di annullare l'esistenza” (di pensare di non avere nessun valore).

La terza verità è che “Esiste l'emancipazione dal dolore”. Per sperimentare l'emancipazione dal dolore, occorre lasciare andare tṛṣṇā, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. Questo stato di cessazione viene denominato nirodha (san. e pāli, cin. 滅 miè, giapp. metsu, tib. gog pa).

La quarta verità è che “Esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore”. È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nirvāṇa (pāli nibbāna, cin. 涅槃 nièpán, giapp. nehan, tib. mya ngan las 'das pa). Esso è detto il Nobile ottuplice sentiero.

Il “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” individua tre fasi nella comprensione di ogni verità, per un totale di dodici passi. Le tre fasi per la comprensione di ciascuna verità sono:

  • Sacca-nana - conoscere la natura della verità.
  • Kicca-nana - conoscere ciò che deve essere fatto in relazione a tale verità (esperienza diretta).
  • Kata-nana - realizzare ciò che deve essere fatto (piena comprensione, conoscenza).

Prima nobile verità

  • C'è la sofferenza.
  • La sofferenza deve essere compresa.
  • Ho compreso la sofferenza.

Seconda nobile verità

  • Esiste un'origine della sofferenza: è l'attaccamento al desiderio (tanha).
  • Il desiderio deve essere lasciato andare.
  • Ho lasciato andare il desiderio.

Terza nobile verità

  • Esiste la cessazione della sofferenza.
  • La cessazione della sofferenza deve essere realizzata.
  • Ho realizzato la cessazione della sofferenza.

Quarta nobile verità

  • Esiste un sentiero che porta alla cessazione della sofferenza
  • Il sentiero che porta alla cessazione della sofferenza deve essere coltivato e realizzato.
  • Ho coltivato e realizzato il sentiero che porta alla cessazione della sofferenza

Nobile ottuplice sentiero

  • retta visione
  • retta intenzione
  • retta parola
  • retta azione
  • retta sussistenza
  • retto sforzo
  • retta presenza mentale
  • retta concentrazione

Bisogna sviluppare gli Otto sentieri” con un approccio “olistico”, perfezionandoli contemporaneamente e in modo equilibrato. Questo implica che non occorre predisporre un ordine sequenziale di questi sentieri ma, piuttosto, l'indicazione che il percorso buddhista tenda complessivamente a tutte le sfaccettature di una singola attività quotidiana, sia mentale che fisica, verbale o spirituale. Esso però può essere considerato secondo tre tipologie di perfezionamento denominate in sanscrito trīṇiśikṣaṇi o śikṣā-traya, (pāli tisikkhā, cin. 三學, sān xué, giapp. san gaku, tib. bslab pa gsum). Questo ordinamento prevede una “spirale” di perfezionamento. Ogni passo procede ad un elevamento verso quello successivo che poi spinge quello che lo precede.

  • la “prima tipologia di perfezionamento” viene denominato in sanscrito adhiśīlam (cin. 戒學 jièxué, giapp. kaigaku) e riguarda la moralità (sanscrito śīla, pali sīla, cinese 戒 jiè, giapp. kai, tib. tsul-khrims):
    • Retta parola, cioè l'assunzione della personale responsabilità delle nostre parole, ponendo attenzione nella loro scelta e ponderandole in modo che esse non producano effetti nocivi sugli altri e di conseguenza a noi stessi; ciò significa anche che il nostro agire deve essere improntato al nostro parlare e corrispondere ad esso.
    • Retta azione, cioè l'azione non motivata dalla ricerca di egoistici vantaggi, svolta senza attaccamento verso i suoi frutti.
    • Retta sussistenza, cioè vivere in modo equilibrato evitando gli eccessi, procurandosi un sostentamento adeguato con mezzi che non possano arrecare danno o sofferenza agli altri. Questo comporta anche la corretta padronanza delle proprie intenzioni, in modo che esse siano sempre orientate e dirette lungo la linea mediana di condotta di vita (sanscrito madhyamāpratipad, pāli majjhimpaṭipāda, cinese 中道 zhōngdào, giapp. chūdō, tib. dbu 'i lam) lontana dagli estremi dell'ascetismo e dell'edonismo.
  • la “seconda tipologia” viene denominata in sanscrito adhicittaṃśikṣā (pāli adhicitta-sikkhā, cinese 增上心學 zēngshàngxīn xué, giapp. zōjōshin gaku, tib. lhag pa'i sems gyi bslab pa) e riguarda la specificità della meditazione (sanscrito e pāli samādhi, cinese 定 dìng, giapp. jō, tib. ting nge 'dzin):
    • Retto sforzo, cioè lasciare andare gli stati non salutari e coltivare quelli salutari. Significa anche confidare nella bontà della propria pratica buddhista perseverando con un corretto ed equilibrato impegno nello sforzo, motivato dalla fede (sanscrito śraddhā, pāli saddhā, cinese 信 xìn, giapp. shin, tib. dad-pa) che al buddhista praticante proviene dai risultati ottenuti nell'avanzamento lungo il percorso della propria personale realizzazione spirituale e nell'avanzamento verso una sempre maggiore capacità di esercitare la “Corretta azione” nella propria pratica buddhista.
    • Retta presenza mentale, cioè la capacità di mantenere la mente priva di confusione, non influenzata dalla brama e dall'attaccamento (sanscrito tṛṣṇā, pāli taṇhā, cinese 愛 ài, giapp. ai, tib. sred-pa).
    • Retta concentrazione, cioè la capacità di mantenere il corretto atteggiamento interiore che porta alla corretta padronanza di se stessi durante la pratica della meditazione (sanscrito dhyāna, pāli jhāna, cinese 禪那 chánnà, giapp. zenna, tib. bsam-gtan).
  • la “terza tipologia” viene denominata in sanscrito prajñā-śikṣā (pāli paññā-sikkhā, cinese 慧學 huìxué, giapp. egaku, tib. shes-rab-kyi bslab-pa) e riguarda la saggezza (sanscrito prajñā, pāli paññā, cin. 慧 huì, giapp. e, tib. shes-rab):
    • Retta visione, cioè il riconoscimento delle “Quattro Nobili Verità” attraverso la loro corretta conoscenza e la conseguente loro corretta visione.
    • Retta intenzione, cioè il corretto impegno sostenuto dalla “Retta visione” nel padroneggiare la tṛṣṇā (l'attaccamento al desiderio di vivere, alla brama ed all'avidità di esistere, di divenire o di liberarsi, al desiderio di affermare il proprio presunto «sé esistente») e dalla compassione (sanscrito e pāli karuṇā, cinese 慈悲 cíbēi, giapp. jihi, tib. snying-rie)[8] per tutti gli esseri.

Storia del buddhismo in India

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pp. 28-29
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pp. 21-22
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pp. 22-23
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11)
pp. 24-25
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pp. 25-27
13)
pp. 27-28
14)
J. Silk, Buddhist Studies, p. 94
15)
Ivi, p.94
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