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Il programma è dedicato alla storia e alla storiografia del buddhismo in India e nel resto dell'Asia con particolare riferimento alla Cina e al Giappone. Nello specifico verranno indagate e messe a confronto le prospettive degli studi filologici, filosofico-religiosi e antropologici rispetto a una selezione di temi e termini rilevanti per lo studio del buddhismo in modo da fornire allo studente gli strumenti utili ad orientarsi nella letteratura specifica e ad approfondire in maniera critica e autonoma le proprie ricerche.
non lo do quindi non mi interessa utile per il corso di arte
Gli studi sul buddhismo hanno avuto la tendenza a generalizzare molto e studiare singole parti non contestualizzandole nell'intero.1) Per molti aspetti ha molto senso provare a parlare di Buddhismi al plurale e non essenzializzare il tutto ad un unico blocco monolitico chiamato buddhismo.2) Questa mancata comprensione è spesso il frutto di un certo occidentalismo che ci porta a proiettare la nostra cultura e le nostre visioni sul e dell'altro, quindi a non avere un'analisi storica sensata dei fenomeni, ma percezioni soggettive. Un bomber nel fare l'analisi di ciò è Said in Orientalismo che mostra bene la nostra cecità culturale, non bisogna essere ingenui, ogni posizionamento e analisi porta con sè molto di noi e dice pure molto di noi.3)
Provare a dare una risposta a questa domanda, a definire cosa sia il buddhismo ci porta sin da subito indagare la domanda stessa: Cosa è una religione? quando si può parlare di religione e quando di filosofia, di scelta etica? Di solito leghiamo una religione all'esistenza di un Dio creatore, il buddha nega ciò, ma crede in spiriti e divinità, quindi è atea? allo stesso tempo deh, mi sembra che sia molto lontano dall'ateismo tipo quello marxista. Che fare? Alcuni hanno parlato di “religione non teistica”, ma in generale siamo abituati ad una definizione troppo stringente di religione.4) Ninian Smart ci consiglia di analizzare le religioni tutte secondo 7 dimensioni:5)
Proviamo ad analizzarle passo dopo passo. Ogni dimensione è importante, esse sono sia correlate tra loro, sia possiamo zoommarle a seconda dei contesti, degli studi, dei vissuti.6)
Altre religioni hanno pratiche più marcate, ma anche il buddhismo non è da meno in particolare in contesto monastico, sia a livello pubblico che privato. La testa rasata, la recita comunitaria delle regole monastiche (il pātimokkha) in momenti specifici, la festa kathina. I monaci non fanno niente a livello sacramentale, no intermediari, però ci sono ai funerali, per l'importanza dello stato d'animo e della morte in generale per la reincarnazione. Il contatto con tradizioni occidentali ha fatto nascere delle nuove cerimonie e allo stesso tempo influenzano riti occidentali.7)
L'esperienza personale ed emotiva del Buddha storico è fondamentale, seguirne gli esempi. Buddhismo come corso di autotrasformazione mediante degli strumenti.8)
La forza dei miti nel buddhismo è forte, essi hanno un forte valore narrativo, sia metaforico che morale, storie locali etc…tutte utili a costruire un'immaginario, un tracciato, un'identità.9)
I buddhisti non parlano di buddhismo, ma parlano del Dharma (“Legge”) o al Buddha-sāsana (“insegnamenti del Buddha”). Gli insegnamenti dottrinali fondamentali sono contenuti in una serie di proposizioni interconnesse. La custodia e l'interpretazioni dei testi spetta agli ordini monastici, ci sono varie dimensioni una più mistica meditativa, altre più filosofiche e legate ai testi, etc etc.10)
Al centro dell'etica buddista c'è il principio del non nuocere (ahimsā). Non sono al di fuori della polica, basti pensare alla resistenza pacifica e non violenta tibetana.11)
Abbiamo monaci e discepoli devoti, ma non solo. È mutevole a seconda delle varie correnti la distinzione tra mondo laico e mondo monastico, non ha un unico capo, ma numerose scuole e assemblee, le comunità decidono in base al consenso.12)
Ha dei luoghi sacri e dei luoghi di pellegrinagio, quindi manufatti fisici, importanti sono anche il testo scritto.13)
Gli studi buddisti, noti anche come Buddhology, sono lo studio accademico del buddismo. “Termine ombrello per l'indagine disinteressata o non apologetica su qualsiasi aspetto del buddismo o delle tradizioni buddiste.”14)
“gli studi sul buddismo hanno sempre assunto una prospettiva esterna, anche quando gli studiosi che li conducono sono essi stessi buddisti. Il campo è quindi un campo intrinsecamente etico, piuttosto che emico. Questo è ciò che separa gli studi sul buddismo, anche della Buddhologia, dalla pratica del Buddhismo, o da quella che oggi alcuni chiamano teologia buddista.15)
Sono una costola degli studi coloniali e post-coloniali e che di recente negli anni '90 hanno iniziato ad adoperare uno sguardo e un taglio critico.
Le informazioni sul buddhismo arrivano sin dal medioevo, però le informazioni sono sparse e intermittenti: tanti nomi per tante religioni diverse, non abbiamo una definione di buddhismo in quanto tale (non si parla nelle fonte di Buddha), ma definizioni vaghe come “religione degli idolacri”. Siamo noi a posteriori che lo capiamo non abbiamo unità nè omogeneità nel vocabolario:
Abbiamo come accennato in precedenza varie terminologie. Marco Polo: “Sergamon Borgani” ( ovvero Śākyamuni Burqan), XVII Matteo Ricci in Cina: “Foë” (Fo), XVII-XVIII secolo, missionari francesi nel Sud Est asiatico: “Sommona Codom” (śramana o Gautama), XVIII, enciclopedia francese da fonti dei gesuiti in Giappone: “Budsdo” (Butsu); “religion de Siaka” (Śākyamuni).
Queste informazioni vengono recepite da loro pari e non da studiosi e in Occidente non si capisce che si tratta della stessa religione. Abbiamo la fascinazione per l’Oriente nel XVIII secolo e l’Encyclopédie afferma: il buddhismo come moderna superstizione, la religione di Siaka o Xaca (Śākyamuni) o Budsdo (butsu). Abbiamo le prime attestazioni scritte di una definizione unitaria (budsdoisme), si capisce che si sta parlando della stessa persona e si conia un ismo, ovvero Budsoismo coniato a partire quindi dal termine giapponese e non dal sanscrito filologicamente rigoroso come è invece Buddha e e buddhismo (in Asia stessa non parlano di Buddhismo).
Abbiamo lo sviluppo degli imperi coloniali nel XIX secolo che alimentano lo studio delle lingue locali da parte occidentale affidato agli impiegati del governo coloniale e di rimbalzo vengono conosciute anche dagli studiosi e dal mondo accademico, ciò porta alla creazione in Europa del mito dell’India come “culla della civiltà”, infatti da lì si svilupperanno tutti gli studi sulle lingue indoeuropee e quindi l'India come corpo originario e primordiale. Questo mito inizia a creparsi quando si inizia ad approfondire la cultura religiosa indiana e gli occidentali la leggono come oscura, irrazionale, violenta e che non ha nulla a che vedere con gli sviluppi europei. Quindi abbiamo nella prima metà del XIX: inizio dello studio scientifico delle lingue orientali (sanscrito, spali, tibetano ecc.) e inizio studi a livello archeologico:
Dalla fascinazione si passa alla scoperta di una civiltà degradata ma risollevata dai nuovi indoeuropei e dal colonialismo e all’induismo incomprensibile e irrazionale gli si contrappone la semplicità razionale del de buddhismo (semplicità=meno corrotto=più antico=più autentico). In maniera paternalistica gli europei vorrebbero riportare in auge il buddhismo in India e la scelta della fonte per la conoscenza del buddhismo sono le fonti canoniche. Burnouf studia le fonti pali e le presenta come la più antica tradizione buddhista, sia per la mole materiale di fonti, sia perchè anche in Asia alcune comunità monastiche presentano tale letteratura come la forma più antica di letteratura, inquinando la percezione occidentale. Gli studiosi e gli antropologi dell'Ottocento erano troppo in fissa con il comparativismo e da una preminenza delle fonti testuali canoniche, ovvero i testi sacri la cui autorità è riconosciuta dalla tradizone e sono il concentrato dell'autenticità. La preminenza assegnata ai testi a scapito delle pratiche religiose, delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche fu un riflesso della mentalità protestante degli studiosi. A smontare queste apparato di analisi fu in particolare J. Silk, “Buddhist Studies” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.
Bibliografia di riferimento per approfondimenti: W. Halbfass, India and Europe: An Essay in Understanding, 1988.
Come è stata ricostruita la storia del buddhismo? i Pregiudizi e limiti della storiografia precedente:
Bibliografia di riferimento su questo tema:
Materiali archeologici ed epigrafici hanno la caratteristica di essere databili, contestualizzabili, materiali non concepiti per circolare ed essere letti.
le fonti testuali canoniche invece sono difficilmente databili, già gli scritti pali stessi erano corrotti, ovvero erano note da versione manoscritte recenti e avevano un obiettivo normativo, non erano testi neutri, scritti per trasmettere un ideale.
Facciamo un esempio in cui la priorità delle fonti canoniche porti a pregiudizi e conseguenze di distorsione del fenomeno, ovvero la negazione delle prove archeologiche:
Presence, Marg Pubs.,1996, pp. 58-73.
La ricostruzione della realtà storica del monachesimo attraverso i materiali epigrafici: G. Schopen e l’esempio della stele di Bodhgayā. L’iscrizione del XIII secolo ricorda il dono di un villaggio al Vajrāsana (il seggio dell’Illuminazione) per il monastero locale e l’affidamento del dono al monaco Mangalasvāmin. Il testo e l’immagine sottostante ammoniscono, con parole ingiuriose, chi tenti di appropriarsi della donazione.
I nomi delle iscrizioni delle donazioni sono importanti perchè dicono molto della percezione del Buddha da parte dei fedeli, ovvero lo venerano quasi più come un santo che come un maestro spirituale e modello umano, esse non usano le lingue della popolazione locale, ma una lingua comune che veicolava il messaggio buddhista. Tutti pagavano sia la lastra che l'incisore, il nome era importante perchè rappresentava l'identità, l'essenza del donatore che così facendo si rendeva il più vicino possible al Buddha, perchè erano lastre non a caso, ma negli stupa dove venivano conservate le reliquie del Buddha, spesso infatti il nome era in contatto con la terra e quindi con il Buddha stesso.
Quando la narrazione tradizionale si fa storia: il caso Chan/Zen
Gli elementi della “narrazione interna”, il Buddha, il fiore e Bodhidharma. Il modello genealogico, la polemica antiscolastica e antidiscorsiva. Non “una” tradizione interpretativa, ma “la” tradizione. Il Chan è il buddhismo e i suoi insegnamenti e sono gli nsegnamenti autenticamente buddhisti. Dai testi all’aneddoto. Il Buddha = il maestro. Invenzione di una narrazione e di un lignaggio ininterrotto. Venuto alla ribalta con il libro di Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco.
Dalla ricostruzione arbitraria alla reinvenzione della pratica
Sārnāth
Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito come luogo del Primo sermone: nessuna Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; i numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika.
Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī, nelle pianure del Terai. Il suo popolo era conosciuto come Sakyas e per questo motivo il Buddha è a volte chiamato Sakyamuni o “il saggio dei Sakya” (Śākya significa “potenti”). Per i suoi seguaci è conosciuto come Bhagavat o “Signore”. Il nome personale del Buddha, come già detto, erac Siddhattha Gotama (sanscrito: Siddharta Gautama). Le date convenzionali per la vita del Buddha sono il 566-486 a.C., anche se ricerche più recenti indicano come data più probabile per la sua morte il 410 a.C. La sua famiglia di origine si dice fosse ricca (forse esagerazione postuma): una stirpe guerriera che dominava il paese. Il padre di Siddartha, il rāja Suddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord.16) La madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.
Suddhodana e Māyā erano sposati da molti anni e non avevano avuto figli. Nel Buddhacarita si racconta che Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le entrava in un fianco destro. Per l'India antica erano animali rari e preziosi, se un sovrano lo vedeva, era un segno di buon auspicio, lo stesso governo militare nel Myanmar lo utilizzò per legittimarsi. Al risveglio racconta il sogno al marito che consulta degli interpreti che gli dicono che nascerà un bambino grandioso. La gravidanza è infatti piena di eventi miracolosi e straordinari, a sottolinere sia il caratterre divino del BUddha (Dio), sia il suo carattere superiore agli altri uomini (re), ma anche la sua natura umana (uomo). Lei, vicino al nono mese si mette in viaggio per andare a partorire dai suoi genitori che si trovavano Kapilavatthu, la capitale della Repubblica di Sakyan. Lei e la sua scorta si fermano in un bellissimo boschetto a Lumbinı̄ , allungandosi per sentire il profumo di un fiore nella foresta, partorisce in piedi, senza dolore dal fianco destro (segno di positività). Buddha nacque pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso. C'è un aggiunta posteriore in cui viene accolto dalle divinità antiche del subcontinente indiano. Il bambino fece sette passi e profetizzò che questa sarebbe stata la sua ultima vita. Il bambino viene presentato al padre e dopo sette giorni muore e viene allevato dalla seconda moglie, ovvero una sorella della madre, Pajāpatī.17) Dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una cerimonia di buon auspicio e lo portano anche al santuario locale dove sono gli dei locali a rendergli omaggio e non viceversa. Durante questa cerimonia si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un Monarca universale, oppure un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un Buddha. Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti. Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito. ricevette il nome di Siddharta (=“quegli che ha raggiunto lo scopo”) Gautama (“l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya”). Il ragazzo cresce eccellendo in ogni attività e si sposa presto, con base rito indiano, all'età di sedici anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula (che significa catene, quelle che intrappolano Gautama). Viene totalmente allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in qualità di erede al trono, vive in una bolla lontano dalla vita reale.
Si parla poi dell'incidente della festa di primavera, in cui viene portato nei campi, dove cade in una trance meditativa spontanea e inizia ad osservare la fatica e il dolore e la catena di violenza spietata e ineluttabile che è la vita. Fa esperienza sia della sofferenza e sia dell'arresto temporale dovuto alla meditazione. A 29 anni, ignaro della realtà che si presentava fuori della reggia, volle uscire dal palazzo reale paterno per vedere la realtà del mondo. Il padre provò a impedire in tutti i modi che il figlio vedesse la sofferenza del mondo, evitando dalla strada infermi e malati, ma gli dei intervennero. Così incontrò prima un vecchio, poi un malato e infine un cadavere. Comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo, tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri. Capì che la sua era una prigione dorata e cominciò interiormente a rifiutarne agi e ricchezze. Poco dopo si imbattè in una quarta figura, un monaco mendicante (samana), calmo e sereno, e decise di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la liberazione. Altro episodio aggiunto dopo è proprio che la scelta di abbandonare tutto e tutti è stata fatta dopo una festa, in cui lui guarda delle danzatrici, che ai suoi occhi non sono sensuali , ma corpi stanchi accasciati come cadaveri. Ineluttabilità della transitorialità della vita, sogno della coscienza, sta decidendo di andarsene.18)
Una notte, mentre la reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica. Fuga segreta, gli dei intervengono per non far sentire gli zoccoli del cavallo sul selciato. Arrivarono fino al limitare della foresta, luogo dell'ignoto, e i 3 si lasciano, il cavallo morirà sul colpo per il dolore della spearazione. Si cambia le vesti ricche con quelle giallo e rosse di un cacciatore, i colori della rinuncia. Turbante e gioielli li lascia allo scudiero per riportarli a casa, si taglia la lunga chioma di capelli e si avventura nella foresta alla ricerca di maestri, sperimentando l'India filosofica. Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nella regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la ākiñcaññayatana, la “sfera di nullità” che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa. Divenne il king della tecnica, ma era insoddisfatto poichè lo stato di trance non era permanente. Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che, esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né non-percezione, dove persino la coscienza sembrava scomparsa. Anche qui Gautama si rende conto che però queste pratiche meditative ti danno si poteri psichici, ma sono bolle che ad una certa finiscono e si ritorna al problema. Lascia il maestro per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi chilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto a sua volta maestro spirituale. Inizia a praticare tecniche di austerità estrema per sottomettere appetiti e passioni Ad un certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione, tornò a una dieta normale (dopo aver sognato la madre che lo intimava di cambiare percorso) accettando una tazza di riso bollito nel latte offertagli da una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò la perdita dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza e lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni, non spossato da fame, sete e sofferenze autoinflitte. Prese tale ciotola di riso e si autodisse: se risale le correnti del fiume devo trovare un'altra strada da solo, e così la tazza fece.19)
Si mise seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya a gambe incrociate nella posizione del loto e iniziò a meditare:
Māra il dio del desiderio, cercò prima di sedurre Siddharta tramite l'apparizione delle sue tre figlie, Tanha (lett.”Bramosia“), Arati (lett.”Noia“) e Raga (lett.”Passione“), poi cercò di spaventarlo con l'apparizione di dieci eserciti di esseri mostruosi (corrispondenti ai dieci tipi di ostacoli della vita spirituale):
Mara è il tentatore, colui che distrae gli esseri dalla pratica rivolta alla Liberazione dal Saṃsāra, rendendo la vita mondana seducente o facendo sembrare il negativo come positivo. Esso rappresenta, più in generale, la Morte spirituale, tutto ciò che ostacola la via verso la Bodhi.
Gautama soddsifatto della rivlenazione, toccà terra, chiamando la dea della Terra a testimonianza di ciò che è successo. Riflettè una settimana se praticare una vita privata o conividere la sua scoperta e alla fine, aiutato anche dalle divinità scelse quest'ultima strada.20)
Il Buddha giunse a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā, che avevano intenzione di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di condividere quanto aveva scoperto. Il Buddha si proclamò un Tathāgata (“colui che ha raggiunto ciò che è realmente così”) e predicò il suo primo sermone. Esso è conservato come un discorso (sutta) intitolato Dhammacakkappavattana-vagga Sutta, Mettere in moto la ruota del Dharma e contiene gli insegnamenti essenziali del buddismo, enunciati in una formula nota come le Quattro Nobili Verità, che si apre con la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione, doloroso, volgare e dannoso. Lui propone una “Via di mezzo”. Ascoltando le parole del maestro, i discepoli divennero “entranti nel flusso”. Iniziò così la fase di predicazione e di monachesimo in lungo e in largo dell'India.21)
La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che poi prese la forma di Induismo) e dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il Dharma. Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha.
Un importante testo noto come Discorso della Grande Morte fornisce un resoconto degli eventi dei pochi mesi che precedettero la morte del Buddha. Ormai aveva ottanta anni e non stava al top, la meditazione e i poteri psichici lo tenevano in piedi. Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda (il discepolo più giovane con il quale ebbe l'ultimo confronto). Lì il Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi principali della sua dottrina. Secondo la tradizione, morì a Kuśināgara, nel 486 a.C. Lui scelse di morire, progressivo deterioramento psicofisico, Il parinirvāṇa indica la cessazione dell'esistenza dei cinque aggregati che costituiscono l'esistenza psicofisica dell'individuo, alla morte di un Buddha o di un arhat. È quindi sinonimo della estinzione di un Buddha o di un maestro illuminato. Il Buddha morì sdraiato sul fianco destro tra due alberi di Sal che, secondo i testi, fiorirono miracolosamente. Sebbene si dica spesso che morì per avvelenamento da cibo dopo aver mangiato un pasto a base di carne di maiale donato da un seguace laico, è chiaro che si riprese e che la sua morte avvenne un po' più tardi, apparentemente per cause naturali. Poco prima della sua morte, il Buddha riunì i monaci e diede loro l'opportunità di porre le ultime domande. Non ne fece nessuna, il che fa pensare che a questo punto il penisero era stato compreso appieno. Il Buddha pronunciò quindi le sue ultime parole: 'Il decadimento è insito in tutte le cose: assicuratevi di lottare con chiarezza di mente (per il nirvana)”. Sereno e composto, passò poi attraverso diversi livelli di trance meditativa meditativa (jhāna) prima di entrare nel nirvana finale. La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra. La cerimonia e il funerale erano degli di un sovrano universale, questo diede il tempo a Mahākassapa, il più autorevole dei monaci dopo la morte del maestro, di giungere a Kuśināgara e prendere parte ai riti funebri. La pira l'accese lui stesso, sfiornadogli i piedi, simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire un Buddha. Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara. La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene. Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.22)
Ci sono due grandi orientamenti:
Poi abbiamo delle biografie e racconti dei pellegrini cinesi come strumenti per l'identificazione dei luoghi.
Alexander Cunningham (1814-1893) il maschio basic occidentale che il king dell'archeologia monumentale e del Rinascimento buddhista.
É. Lamotte, tenta di far affiorare la biografia del Buddha storico dai testi “è un'impresa senza speranza” (Histoire du Bouddhisme indien, 1958)
Oggi? Tendenza a partire dalla metà del XX secolo, studiare i racconti biografici nella loro interezza senza tentare di distinguere tra storia e leggenda. Tenere di conto di come viene raccontata la vita del Buddha nelle comunità monastiche, essa è una storia esemplare e questo processo agiografico non nasce subito, possiamo immaginare una memoria storica orale e poi successivamente arricchita.
Abbiamo un assenza di un'unica biografia canonica, ma molteplicità di informazioni biografiche contenute in numerosi testi della letteratura canonica (sutra e vinaya), testi autonomi della letteratura buddhista in sanscrito (Buddhacarita, Lalitavistara, Mahāvastu), le biografie del canone cinese e del canone tibetano, materiali eterogenei che si ofrrono a interpretazioni differenti.
Tendenze recenti degli studi sulle narrazioni biografiche del Buddha:
la questione della data:
nessuna testimonianza archeologica chiaramente legata al buddhismo risale a un’epoca anteriore al III sec. a.C.
Riferimenti bibliografici: H. Bechert (a cura di), The Dating of the Historical Buddha, 3 voll., 1991-97.
la questione dei luoghi: l la tradizione del pellegrinaggio nei luoghi “della vita del Buddha” e lo sviluppo della narrazione agiografica si sono sviluppate Parallelamente intrecciandosi e influenzandosi reciprocamente. Il racconto biografico celebra alcuni siti come i luoghi di celebri eventi della vita del Buddha, d’altra parte altri siti significativi a vario titolo (per la particolarità del paesaggio o per il legame con leggende locali) confluiscono nella geografia sacra buddhista determinando un ampliamento del racconto biografico che si arricchisce di nuovi elementi.la prima testimonianza del collegamento del Buddha con alcuni luoghi del pellegrinaggio e la testimonianza del pellegrinaggio di Aśoka a Lumbinī e, forse, a Kuśinagarī datano al III secolo a.C.
Il contesto della religiosità brahmanica all’epoca del Buddha:
Figure e idee diffuse:
Storicità del racconto:
I mahāsthāna (i “grandi luoghi”)
La dinastia Maurya (323-185 a.C)
Aśoka(268-232 a.C.)
Lumbinī:
Bodhgayā:
Sārnāth:
Kuśinagarī:
L’archeologia ha portato alla luce siti e opere d’arte connesse chiaramente con il Buddha ma si tratta di testimonianze posteriori di alcuni secoli dalla sua esistenza.
Usare fonti letterarie tarde per ricostruire eventi ben più antichi è un’operazione rischiosa (e metodologicamente sbagliata).
È d’altra parte condiviso che tutte queste testimonianze si riferiscano a una figura storica reale vissuta in qualche momento intorno alla metà del I millennio a.C.
La formulazione classica delle “quattro nobili verità”, è esposta nel “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” (Dharmacakrapravartana Sūtra, sans., Dhammacakkappavattana Sutta, pāli). Esse sono strutturate secondo un'indagine medica:
Esse costituiscono il Dharma ermine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati. Può essere tradotto come “dovere”, “legge”, “legge cosmica”, “legge naturale”, oppure “il modo in cui le cose sono”. Per l'induismo è la norma che regge il mondo: rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell'universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito, per esempio il non essere violento e la coerenza di postura in pensiero e azione. Nel buddhismo, possiede l'ulteriore significato di Legge universale naturale, ovvero le regole in cui il saṃsāra segue il suo corso, indica gli insegnamenti del Buddha, a partire dall'origine del duḥkha (la sofferenza), la pratica di tali insegnamenti, la via verso l'Illuminazione e di conseguenza il Buddhismo stesso.
Qual è il problema centrale di pensiero nel subcontinente indiano? era che agire ci carica di debito karmico
Il karman è un “principio universale” secondo il quale un'“azione virtuosa volontaria” genera una o più rinascite positive, mentre un'azione “non virtuosa volontaria” (che produce sofferenza) genera rinascite negative. Il karma, dunque, vincola tutti gli esseri senzienti al ciclo del saṃsāra poiché tutto ciò che l'essere farà, si ripercuoterà in una qualche “condanna” nelle vite future. Quando si compie (o si desidera di compiere) un'azione non virtuosa, si depositano nella vita stessa dei “semi” o “residui” (sans. vāsanā) in seguito alla produzione di karma negativo. Quando si compie un'azione virtuosa invece, si produce karma positivo. Questi residui allungheranno la permanenza dell'esistenza nel samsāra. Esiste però un tipo di karma che non è né positivo né negativo, quello che porta alla “liberazione” (Vimukti) ed è indicato come aśukla avipāka karma karmaḳsayāya saṃvartate. Ogni manifestazione degli esseri senzienti possiede una certa quantità di “semi del karma” che, finché non saranno esauriti, li costringeranno a permanere nel ciclo del samsāra. Questi “semi” sono frutto di azioni compiute in innumerevoli vite precedenti. Essi non possono diminuire ma possono essere distrutti con il raggiungimento dell'“illuminazione” (Bodhi). Con l'estinzione del debito karmico, l'essere non sarà più vincolato al karma e quindi al samsāra e potrà raggiungere il Nirvana. Il significato e il ruolo attribuito alla dottrina del karma varia a seconda degli insegnamenti delle differenti scuole buddhiste.
Nella vita degli esseri senzienti (sanscrito sattva, pāli satta, cin. 衆生 zhòngshēng, giapp. shūjō, tib. sems-can), tra cui l'essere umano, è insita la “sofferenza” (san. duḥkha, pāli dukkha, cin. 苦 kǔ, giapp. ku, tib. sdug-bsngal). Tale esperienza del dolore riguarda anche i momenti di “appagamento” e “serenità” in quanto essi stessi impermanenti. Nei testi canonici il Buddha Shakyamuni individua otto tipi di dolore:
Questa lista di otto dolori viene riassunta in tre categorie (san. tri-duḥkhatā, pāli tidukkhatā, cin. 三苦 sānkǔ, giapp. sanku, tib. sdug bsngal gsum):
Il “dolore” affligge l'uomo a motivo dell'impermanenza sia propria che di tutto ciò che sperimenta e conosce in vita, per effetto della sua nascita immersa nel saṃsāra e per l'adesione alla credenza in un sé imperituro. Questa sofferenza si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama (contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi sgradevoli ecc.), come pure è percepita quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama o in cui ci si diletta, o ancora quando si risente di un disagio esistenziale derivante dallo scontrarsi con una realtà che non soddisfa la propria adesione all'idea di un sé solido, affidabile ed imperituro. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del “dolore”. Più in generale, la constatazione che viene fatta nella “Prima nobile verità” è che esiste nella vita dell'uomo una “sofferenza” associata indistricatamente all'essere nel mondo un mutevole «composto di aggregati».
Sento il prurito, allora mi gratto, nostro obiettivo è sentire il prurito non rispondere subito alla sensazione, ma riflettere sull'effetto e sul fatto che muta e dopo un po' passa. Questo esempio banale sta ad indicare che tutte le esperienze portano della sofferenza, noi reifichiamo le emozioni, ma esse non esistono in quanto tali, non esiste il dolore, la rabbia, la felicità in sè e per sè, ma sono stati transitori. Anche il corpo non esiste in sè per sè, ma solo quando lo percepiamo, siamo aggregati di elementi che esperiscono flussi di esperienza. Il flusso è tenuto insieme dal concatenarsi carmico che lega le esperienze e le vite successive e precedenti.
Come era concepita la liberazione nel pensiero filosofico indiano?
l termine sanscrito di genere maschile mokṣa, così come il termine sanscrito femminile avente il medesimo significato mukti, indicano in questa lingua la “liberazione” dal ciclo di nascita-morte, dalla sofferente trasmigrazione, propria del saṃsāra. Ambedue i termini originano dal verbo sanscrito muc avente il significato di “liberarsi”.
Come abbiamo visto, la nozione di “liberazione” dal saṃsāra non attiene al “vedismo”, ovvero alla religione antica dell'India, compendiata nei suoi testi religiosi dei Veda e dei Brāhmaṇa, il quale persegue essenzialmente la bhukti, la felicità terrena, quanto piuttosto origina dai testi delle Upaniṣad (il termine qui usato è mukti; mentre nella Chāndogya Upaniṣad, VII, 26,2, è il composto vipramokṣa, dallo stesso significato) e si diffonde nel VI secolo a.C., contemporaneamente al buddhismo e al giainismo.
Tale nozione di “liberazione”, espressa con termini sempre derivanti dal verbo muc, verrà successivamente approfondita da importanti testi induisti quali la Bhagavadgītā e il Manusmṛti .
In ambito delle filosofie yogiche il termine utilizzato per indicare la liberazione è invece apavarga nel significato di “abbandono”, “fuga” dal saṃsāra. Mentre la filosofia sāṃkhya predilige il termine kaivalya col significato di isolamento del puruṣa liberatosi dalla prakṛti.
Le tradizioni ascetiche predicano la liberazione in vita e non dopo la morte del corpo, nel qual caso tale raggiungimento viene indicato con il termine jīvanmukta (“liberato in vita”).
A partire dai commentari del Brahmasūtra propri della medievale filosofia Vedānta, il termine più diffuso diviene mokṣa.
Sono differenti le “vie” di “liberazione” dal saṃsāra che il complesso religioso che va sotto il nome di “Induismo” offre al suo praticante (cfr. ad esempio le darśana), e queste possono essere approfondite nelle voci delle relative scuole e insegnamenti. In generale attraverso la meditazione si arriva a progressivi stati di coscienza rarefatti, esperire “a togliere”, ma non è una condizione permanente e sta lì il problema del buddhismo.
La seconda verità è che il “dolore” non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama (sanscrito tṛṣṇā, pāli taṇhā, cin. 愛 ài, giapp. ai, tib. sred pa), per ciò che non è soddisfacente e questo genera attaccamento. Si manifesta nelle tre forme di:
La terza verità è che “Esiste l'emancipazione dal dolore”. Per sperimentare l'emancipazione dal dolore, occorre lasciare andare tṛṣṇā, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. Questo stato di cessazione viene denominato nirodha (san. e pāli, cin. 滅 miè, giapp. metsu, tib. gog pa).
La quarta verità è che “Esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore”. È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nirvāṇa (pāli nibbāna, cin. 涅槃 nièpán, giapp. nehan, tib. mya ngan las 'das pa). Esso è detto il Nobile ottuplice sentiero.
Il “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” individua tre fasi nella comprensione di ogni verità, per un totale di dodici passi. Le tre fasi per la comprensione di ciascuna verità sono:
Prima nobile verità
Seconda nobile verità
Terza nobile verità
Quarta nobile verità
Bisogna sviluppare gli Otto sentieri“ con un approccio “olistico”, perfezionandoli contemporaneamente e in modo equilibrato. Questo implica che non occorre predisporre un ordine sequenziale di questi sentieri ma, piuttosto, l'indicazione che il percorso buddhista tenda complessivamente a tutte le sfaccettature di una singola attività quotidiana, sia mentale che fisica, verbale o spirituale. Esso però può essere considerato secondo tre tipologie di perfezionamento denominate in sanscrito trīṇiśikṣaṇi o śikṣā-traya, (pāli tisikkhā, cin. 三學, sān xué, giapp. san gaku, tib. bslab pa gsum). Questo ordinamento prevede una “spirale” di perfezionamento. Ogni passo procede ad un elevamento verso quello successivo che poi spinge quello che lo precede.