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Storia del pensiero buddhista 2022-23

Programma

Il programma è dedicato alla storia e alla storiografia del buddhismo in India e nel resto dell'Asia con particolare riferimento alla Cina e al Giappone. Nello specifico verranno indagate e messe a confronto le prospettive degli studi filologici, filosofico-religiosi e antropologici rispetto a una selezione di temi e termini rilevanti per lo studio del buddhismo in modo da fornire allo studente gli strumenti utili ad orientarsi nella letteratura specifica e ad approfondire in maniera critica e autonoma le proprie ricerche.

  • 14/11/2021 Introduzione agli argomenti del corso, presentazione della bibliografia e informazioni relative alle modalità d’esame e agli appelli previsti.
  • 15/11/2021 La storiografia buddhista: storia degli studi tra pregiudizi, luoghi comuni e revisioni.
  • 16/11/2021 Il Buddha: la biografia esemplare nella letteratura e nell’arte
  • 21/11/2021 La ricostruzione della vita del Buddha: tra mito e storia
  • 22/11/2021 L’insegnamento del Buddha nel contesto dell’India antica
  • 23/11/2021 Il buddhismo in India: lineamenti dello sviluppo
  • 28/11/2021 Il Mahāyāna
  • 29/11/2021 Modelli di diffusione del buddhismo in Asia
  • 30/11/2021 Il buddhismo in Cina: lineamenti dello sviluppo
  • 05/12/2021 Le scuole cinesi Huayan e Tiantai
  • 06/12/2021 Il buddhismo Chan
  • 07/12/2021 La diffusione del buddhismo in Giappone
  • 12/12/2021 Specificità del buddhismo giapponese
  • 13/12/2021 Il buddhismo Zen
  • 14/12/2021 Riepilogo dei temi trattati ed esercitazioni

Esame

non lo do quindi non mi interessa utile per il corso di arte

Testi e Bibliografia

  • D. Keown, Buddhismo, Torino, Einaudi, 1999.
  • “Theravāda”; “Mahāyāna” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.
  • D. Lopez, Curators of the Buddha. The Study of Buddhism Under Colonialism, Chicago–London, Chicago University Press, 1995, pp. 1-29. Sostituito da J. Silk, “Buddhist Studies”, in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004, pp. 94-101.
  • E. Zürcher, “The Impact of Buddhism on Chinese Culture in An Historical Perspective” in J. Silk (a cura di) Buddhism in China Collected Paper of Erik Zürcher, Leiden, Brill, 2013, pp. 339-351. Sostituito da E. Zürcher, “Buddhismo in Cina” in Enciclopedia delle religioni.
  • A.F. Wright, Buddhism in Chinese History, Stanford, Stanford University Press, 1959, pp. 3-20.
  • W.E. Deal e B. Ruppert, A Cultural History of Japanese Buddhism, Chichester, Wiley, 2015, pp. 1-133.
  • J. Kieschnick, “Introduction”, in The Impact of Buddhism On Chinese Material Culture, Princeton, Princeton University Press, 2003, pp. 1-23.

Lezioni

Introduzioni di metodo

Gli studi sul buddhismo hanno avuto la tendenza a generalizzare molto e studiare singole parti non contestualizzandole nell'intero.1) Per molti aspetti ha molto senso provare a parlare di Buddhismi al plurale e non essenzializzare il tutto ad un unico blocco monolitico chiamato buddhismo.2) Questa mancata comprensione è spesso il frutto di un certo occidentalismo che ci porta a proiettare la nostra cultura e le nostre visioni sul e dell'altro, quindi a non avere un'analisi storica sensata dei fenomeni, ma percezioni soggettive. Un bomber nel fare l'analisi di ciò è Said in Orientalismo che mostra bene la nostra cecità culturale, non bisogna essere ingenui, ogni posizionamento e analisi porta con sè molto di noi e dice pure molto di noi.3)

È una religione?

Provare a dare una risposta a questa domanda, a definire cosa sia il buddhismo ci porta sin da subito indagare la domanda stessa: Cosa è una religione? quando si può parlare di religione e quando di filosofia, di scelta etica? Di solito leghiamo una religione all'esistenza di un Dio creatore, il buddha nega ciò, ma crede in spiriti e divinità, quindi è atea? allo stesso tempo deh, mi sembra che sia molto lontano dall'ateismo tipo quello marxista. Che fare? Alcuni hanno parlato di “religione non teistica”, ma in generale siamo abituati ad una definizione troppo stringente di religione.4) Ninian Smart ci consiglia di analizzare le religioni tutte secondo 7 dimensioni:5)

  • dimensione pratica e rituale
  • dimensione esperienziale e rituale
  • dimensione narrativa e mitica
  • dimensione dottrinale e filosofica
  • dimenzione etica e legale
  • dimensione sociale e istituzionale
  • dimensione materiale

Proviamo ad analizzarle passo dopo passo. Ogni dimensione è importante, esse sono sia correlate tra loro, sia possiamo zoommarle a seconda dei contesti, degli studi, dei vissuti.6)

Dimensione pratica e rituale

Altre religioni hanno pratiche più marcate, ma anche il buddhismo non è da meno in particolare in contesto monastico, sia a livello pubblico che privato. La testa rasata, la recita comunitaria delle regole monastiche (il pātimokkha) in momenti specifici, la festa kathina. I monaci non fanno niente a livello sacramentale, no intermediari, però ci sono ai funerali, per l'importanza dello stato d'animo e della morte in generale per la reincarnazione. Il contatto con tradizioni occidentali ha fatto nascere delle nuove cerimonie e allo stesso tempo influenzano riti occidentali.7)

Dimensione esperienziale ed emotiva

L'esperienza personale ed emotiva del Buddha storico è fondamentale, seguirne gli esempi. Buddhismo come corso di autotrasformazione mediante degli strumenti.8)

Dimensione narrativa e mistica

La forza dei miti nel buddhismo è forte, essi hanno un forte valore narrativo, sia metaforico che morale, storie locali etc…tutte utili a costruire un'immaginario, un tracciato, un'identità.9)

Dimensione dottrinale e filosofica

I buddhisti non parlano di buddhismo, ma parlano del Dharma (“Legge”) o al Buddha-sāsana (“insegnamenti del Buddha”). Gli insegnamenti dottrinali fondamentali sono contenuti in una serie di proposizioni interconnesse. La custodia e l'interpretazioni dei testi spetta agli ordini monastici, ci sono varie dimensioni una più mistica meditativa, altre più filosofiche e legate ai testi, etc etc.10)

Dimensione etica e legale

Al centro dell'etica buddista c'è il principio del non nuocere (ahimsā). Non sono al di fuori della polica, basti pensare alla resistenza pacifica e non violenta tibetana.11)

Dimensione sociale e istituzionale

Abbiamo monaci e discepoli devoti, ma non solo. È mutevole a seconda delle varie correnti la distinzione tra mondo laico e mondo monastico, non ha un unico capo, ma numerose scuole e assemblee, le comunità decidono in base al consenso.12)

Dimensione materiale

Ha dei luoghi sacri e dei luoghi di pellegrinagio, quindi manufatti fisici, importanti sono anche il testo scritto.13)

La storiografia buddhista: storia degli studi tra pregiudizi, luoghi comuni e revisioni

Gli studi buddisti, noti anche come Buddhology, sono lo studio accademico del buddismo. “Termine ombrello per l'indagine disinteressata o non apologetica su qualsiasi aspetto del buddismo o delle tradizioni buddiste.”14)

“gli studi sul buddismo hanno sempre assunto una prospettiva esterna, anche quando gli studiosi che li conducono sono essi stessi buddisti. Il campo è quindi un campo intrinsecamente etico, piuttosto che emico. Questo è ciò che separa gli studi sul buddismo, anche della Buddhologia, dalla pratica del Buddhismo, o da quella che oggi alcuni chiamano teologia buddista.15)

Sono una costola degli studi coloniali e post-coloniali e che di recente negli anni '90 hanno iniziato ad adoperare uno sguardo e un taglio critico.

Le informazioni sul buddhismo arrivano sin dal medioevo, però le informazioni sono sparse e intermittenti: tanti nomi per tante religioni diverse, non abbiamo una definione di buddhismo in quanto tale (non si parla nelle fonte di Buddha), ma definizioni vaghe come “religione degli idolacri”. Siamo noi a posteriori che lo capiamo non abbiamo unità nè omogeneità nel vocabolario:

  • XIII sec. missioni francescane nelle terre mongole (Guglielmo di Rubruck uno dei principali, egli fu un religioso fiammingo appartenente all’Ordine dei Frati Minori, missionario ed esploratore. Il suo resoconto del viaggio in Asia è uno dei capolavori della letteratura geografica medioevale), dove sono testimoni di dibattiti religiosi tra la tradizione sciamanica, le idee buddhiste e i cristiani nestoriani, poichè i sovrani mongoli sono molto aperti alle questioni religiose.
  • Marco Polo e con tutte le sue ambiguità i suoi scritti
  • dGesuiti in Asia (Matteo Ricci, Francesco Saverio, Ippolito Desideri)

Abbiamo come accennato in precedenza varie terminologie. Marco Polo: “Sergamon Borgani” ( ovvero Śākyamuni Burqan), XVII Matteo Ricci in Cina: “Foë” (Fo), XVII-XVIII secolo, missionari francesi nel Sud Est asiatico: “Sommona Codom” (śramana o Gautama), XVIII, enciclopedia francese da fonti dei gesuiti in Giappone: “Budsdo” (Butsu); “religion de Siaka” (Śākyamuni).

Queste informazioni vengono recepite da loro pari e non da studiosi e in Occidente non si capisce che si tratta della stessa religione. Abbiamo la fascinazione per l’Oriente nel XVIII secolo e l’Encyclopédie afferma: il buddhismo come moderna superstizione, la religione di Siaka o Xaca (Śākyamuni) o Budsdo (butsu). Abbiamo le prime attestazioni scritte di una definizione unitaria (budsdoisme), si capisce che si sta parlando della stessa persona e si conia un ismo, ovvero Budsoismo coniato a partire quindi dal termine giapponese e non dal sanscrito filologicamente rigoroso come è invece Buddha e e buddhismo (in Asia stessa non parlano di Buddhismo).

Abbiamo lo sviluppo degli imperi coloniali nel XIX secolo che alimentano lo studio delle lingue locali da parte occidentale affidato agli impiegati del governo coloniale e di rimbalzo vengono conosciute anche dagli studiosi e dal mondo accademico, ciò porta alla creazione in Europa del mito dell’India come “culla della civiltà”, infatti da lì si svilupperanno tutti gli studi sulle lingue indoeuropee e quindi l'India come corpo originario e primordiale. Questo mito inizia a creparsi quando si inizia ad approfondire la cultura religiosa indiana e gli occidentali la leggono come oscura, irrazionale, violenta e che non ha nulla a che vedere con gli sviluppi europei. Quindi abbiamo nella prima metà del XIX: inizio dello studio scientifico delle lingue orientali (sanscrito, spali, tibetano ecc.) e inizio studi a livello archeologico:

  • 1824 scoperta dei manoscritti nepalesi e tibetani da parte di Brian H. Hodgson
  • 1837 arrivo dei manoscritti a Parigi
  • 1844 Introduction à l’histoire du Buddhisme indien di Eugène Burnouf “buddhismo”, coniazione occidentale da Buddha: lo “svegliato” (budh-), appellativo di Siddhārtha Gautama Śākyamuni

Dalla fascinazione si passa alla scoperta di una civiltà degradata ma risollevata dai nuovi indoeuropei e dal colonialismo e all’induismo incomprensibile e irrazionale gli si contrappone la semplicità razionale del de buddhismo (semplicità=meno corrotto=più antico=più autentico). In maniera paternalistica gli europei vorrebbero riportare in auge il buddhismo in India e la scelta della fonte per la conoscenza del buddhismo sono le fonti canoniche. Burnouf studia le fonti pali e le presenta come la più antica tradizione buddhista, sia per la mole materiale di fonti, sia perchè anche in Asia alcune comunità monastiche presentano tale letteratura come la forma più antica di letteratura, inquinando la percezione occidentale. Gli studiosi e gli antropologi dell'Ottocento erano troppo in fissa con il comparativismo e da una preminenza delle fonti testuali canoniche, ovvero i testi sacri la cui autorità è riconosciuta dalla tradizone e sono il concentrato dell'autenticità. La preminenza assegnata ai testi a scapito delle pratiche religiose, delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche fu un riflesso della mentalità protestante degli studiosi. A smontare queste apparato di analisi fu in particolare J. Silk, “Buddhist Studies” in R.E. Buswell (a cura di), Encyclopedia of Buddhism, New York, Macmillan Reference, 2004.

Bibliografia di riferimento per approfondimenti: W. Halbfass, India and Europe: An Essay in Understanding, 1988.

Come è stata ricostruita la storia del buddhismo? i Pregiudizi e limiti della storiografia precedente:

  • narrazioni delle varie tradizioni, non viene letta sul fatto che ogni narrazione tramandata risponde a esigenze di autoaffermazione e legittimazione
  • le fonti testuali canoniche venogno lette in maniera descrittiva e non descrittiva, quindi comparazione puramente filologiche, estrapolazioni fuori contesto
  • le pratiche devozionali odierne venivano lette come un proseguimento di quelle antiche, zero cambiamenti, linearità di tramandazione proprio grazie ai testi, base nessun contatto con l'esperienza diretta e vissuta.
  • le testimonianze artistiche/archeologiche dovevano confermare quello scritto nei testi, se ciò non avveniva, cortocircuito e gli studiosi ne facevaono un uso distorto ed è da questo che si è proprio partito.

Bibliografia di riferimento su questo tema:

  • G. Schopen, “Archaeology and Protestant Presuppositions”, History of Religions, 31, 1991, pp. 1-23.
  • Robin Coningham, “The Archaeology of Buddhism”, in T. Insoll (a cura di), Archaeology and World Religion, London and New York, Routledge, 2001, pp. 61-95 [In particolare: “Introduction”]

Materiali archeologici ed epigrafici hanno la caratteristica di essere databili, contestualizzabili, materiali non concepiti per circolare ed essere letti.

le fonti testuali canoniche invece sono difficilmente databili, già gli scritti pali stessi erano corrotti, ovvero erano note da versione manoscritte recenti e avevano un obiettivo normativo, non erano testi neutri, scritti per trasmettere un ideale.

Facciamo un esempio in cui la priorità delle fonti canoniche porti a pregiudizi e conseguenze di distorsione del fenomeno, ovvero la negazione delle prove archeologiche:

  • attraverso il testo, si può leggere che i monaci non potevano avere beni materiali, essi dovevano vivere delle offerte della comunità laica, si trovano oggetti con inciso il nome di monaci e lo si legge non come proprietà, ma come un'urna funeraria, si trova addirittura un salvadanaio nascosto e lo si spiega come nascondiglio segreto e si afferma che ad un certo punto il canone non viene più seguito alla lettera e alimenta la narrazione di un'epoca d'oro del buddhismo e poi di una sua corruzione. Bibliografia di riferimento: G. Schopen, “What’s in a Name: The Religious Function of Early Donative Inscriptions” in V. Dehejia (ed.). Unseen

Presence, Marg Pubs.,1996, pp. 58-73.

  • si trovano delle iscrizioni in cui monaci e monache hanno donato per costruire il monumento di culto, ovviamente tale donazione viene letta come il frutto della mendicazione. Tale fine di queste donazioni era letta attraverso il karmen ovvero non si trattava di trasferire il merito per il loro dono a qualcun altro, ma di formulare intenzioni che il meccanismo della retribuzione degli atti renderebbe inoperante. Schopen vede delle iscrizioni, alcune sono illegibili o c'è solo scritto il titolo, la professione, ma in altre anche il motivo che poteva essere per qualcun'altro o per la collettività. le testimonianze epigrafiche provenienti da varie parti del subcontinente e databili tra il III e il I sec. a.C. provano una situazione diversa da quella contenuta nelle fonti testuali.

La ricostruzione della realtà storica del monachesimo attraverso i materiali epigrafici: G. Schopen e l’esempio della stele di Bodhgayā. L’iscrizione del XIII secolo ricorda il dono di un villaggio al Vajrāsana (il seggio dell’Illuminazione) per il monastero locale e l’affidamento del dono al monaco Mangalasvāmin. Il testo e l’immagine sottostante ammoniscono, con parole ingiuriose, chi tenti di appropriarsi della donazione.

I nomi delle iscrizioni delle donazioni sono importanti perchè dicono molto della percezione del Buddha da parte dei fedeli, ovvero lo venerano quasi più come un santo che come un maestro spirituale e modello umano, esse non usano le lingue della popolazione locale, ma una lingua comune che veicolava il messaggio buddhista. Tutti pagavano sia la lastra che l'incisore, il nome era importante perchè rappresentava l'identità, l'essenza del donatore che così facendo si rendeva il più vicino possible al Buddha, perchè erano lastre non a caso, ma negli stupa dove venivano conservate le reliquie del Buddha, spesso infatti il nome era in contatto con la terra e quindi con il Buddha stesso.

Quando la narrazione tradizionale si fa storia: il caso Chan/Zen

Gli elementi della “narrazione interna”, il Buddha, il fiore e Bodhidharma. Il modello genealogico, la polemica antiscolastica e antidiscorsiva. Non “una” tradizione interpretativa, ma “la” tradizione. Il Chan è il buddhismo e i suoi insegnamenti e sono gli nsegnamenti autenticamente buddhisti. Dai testi all’aneddoto. Il Buddha = il maestro. Invenzione di una narrazione e di un lignaggio ininterrotto. Venuto alla ribalta con il libro di Eugen Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco.

Dalla ricostruzione arbitraria alla reinvenzione della pratica

Sārnāth

Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito come luogo del Primo sermone: nessuna Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; i numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika.

Il Buddha: la biografia esemplare

Nascita

Nel complesso queste biografie tradizionali narrano della sua nascita avvenuta nel Nepal meridionale, a Lumbinī, nelle pianure del Terai. Il suo popolo era conosciuto come Sakyas e per questo motivo il Buddha è a volte chiamato Sakyamuni o “il saggio dei Sakya” (Śākya significa “potenti”). Per i suoi seguaci è conosciuto come Bhagavat o “Signore”. Il nome personale del Buddha, come già detto, erac Siddhattha Gotama (sanscrito: Siddharta Gautama). Le date convenzionali per la vita del Buddha sono il 566-486 a.C., anche se ricerche più recenti indicano come data più probabile per la sua morte il 410 a.C. La sua famiglia di origine si dice fosse ricca (forse esagerazione postuma): una stirpe guerriera che dominava il paese. Il padre di Siddartha, il rāja Suddhodana, regnava su uno dei numerosi stati in cui era politicamente divisa l'India del nord.16) La madre di nome Māyā (o Mahāmāyā) è descritta di grande bellezza.

Suddhodana e Māyā erano sposati da molti anni e non avevano avuto figli. Nel Buddhacarita si racconta che Mahāmāyā sognò che un elefante bianco le entrava in un fianco destro. Per l'India antica erano animali rari e preziosi, se un sovrano lo vedeva, era un segno di buon auspicio, lo stesso governo militare nel Myanmar lo utilizzò per legittimarsi. Al risveglio racconta il sogno al marito che consulta degli interpreti che gli dicono che nascerà un bambino grandioso. La gravidanza è infatti piena di eventi miracolosi e straordinari, a sottolinere sia il caratterre divino del BUddha (Dio), sia il suo carattere superiore agli altri uomini (re), ma anche la sua natura umana (uomo). Lei, vicino al nono mese si mette in viaggio per andare a partorire dai suoi genitori che si trovavano Kapilavatthu, la capitale della Repubblica di Sakyan. Lei e la sua scorta si fermano in un bellissimo boschetto a Lumbinı̄ , allungandosi per sentire il profumo di un fiore nella foresta, partorisce in piedi, senza dolore dal fianco destro (segno di positività). Buddha nacque pienamente cosciente e con un corpo perfetto e luminoso. C'è un aggiunta posteriore in cui viene accolto dalle divinità antiche del subcontinente indiano. Il bambino fece sette passi e profetizzò che questa sarebbe stata la sua ultima vita. Il bambino viene presentato al padre e dopo sette giorni muore e viene allevato dalla seconda moglie, ovvero una sorella della madre, Pajāpatī.17) Dopo la nascita di Siddartha furono invitati a corte brahmani e asceti per una cerimonia di buon auspicio e lo portano anche al santuario locale dove sono gli dei locali a rendergli omaggio e non viceversa. Durante questa cerimonia si racconta che il vecchio saggio Asita trasse, com'era consuetudine, l'oroscopo del nuovo nato e riferì ai genitori dell'eccezionale qualità del neonato e la straordinarietà del suo destino: tra le lacrime, spiegò che egli sarebbe infatti dovuto diventare o un Monarca universale, oppure un asceta rinunciante destinato a conseguire il risveglio, che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte, ossia un Buddha. Alla richiesta di spiegazioni sulla ragione delle sue lacrime, il vecchio saggio spiegò che erano dovute sia alla gioia d'aver scoperto un tale essere al mondo, sia alla tristezza che gli derivava il constatare che la sua età troppo avanzata non gli avrebbe permesso di ascoltare e di beneficiare degli insegnamenti di un tale essere realizzato. Si fece pertanto giurare dal nipote Nālaka che lui avrebbe seguito il Maestro una volta che fosse cresciuto e che ne avrebbe imparato e messo in pratica gli insegnamenti. Il padre rimase turbato dalla possibilità che il figlio lo abbandonasse, privandolo della legittima successione al trono, e organizzò tutto quanto potesse impedire l'evento premonito. ricevette il nome di Siddharta (=“quegli che ha raggiunto lo scopo”) Gautama (“l'appartenente al ramo Gotra degli Śākya”). Il ragazzo cresce eccellendo in ogni attività e si sposa presto, con base rito indiano, all'età di sedici anni, con la cugina Bhaddakaccānā, nota anche con il nome di Yashodharā, con la quale ebbe, tredici anni più tardi un figlio, Rāhula (che significa catene, quelle che intrappolano Gautama). Viene totalmente allevato in mezzo alle comodità e al lusso principesco e fatto partecipare alla vita di corte in qualità di erede al trono, vive in una bolla lontano dalla vita reale.

I quattro incontri

Si parla poi dell'incidente della festa di primavera, in cui viene portato nei campi, dove cade in una trance meditativa spontanea e inizia ad osservare la fatica e il dolore e la catena di violenza spietata e ineluttabile che è la vita. Fa esperienza sia della sofferenza e sia dell'arresto temporale dovuto alla meditazione. A 29 anni, ignaro della realtà che si presentava fuori della reggia, volle uscire dal palazzo reale paterno per vedere la realtà del mondo. Il padre provò a impedire in tutti i modi che il figlio vedesse la sofferenza del mondo, evitando dalla strada infermi e malati, ma gli dei intervennero. Così incontrò prima un vecchio, poi un malato e infine un cadavere. Comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità e che le ricchezze, la cultura, l'eroismo, tutto quanto gli avevano insegnato a corte erano valori effimeri. Capì che la sua era una prigione dorata e cominciò interiormente a rifiutarne agi e ricchezze. Poco dopo si imbattè in una quarta figura, un monaco mendicante (samana), calmo e sereno, e decise di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza, alla gloria ed al potere per cercare la liberazione. Altro episodio aggiunto dopo è proprio che la scelta di abbandonare tutto e tutti è stata fatta dopo una festa, in cui lui guarda delle danzatrici, che ai suoi occhi non sono sensuali , ma corpi stanchi accasciati come cadaveri. Ineluttabilità della transitorialità della vita, sogno della coscienza, sta decidendo di andarsene.18)

La rinuncia

Una notte, mentre la reggia era avvolta nel silenzio e tutti dormivano, complice il fedele auriga Chandaka, montò sul suo cavallo Kanthaka e abbandonò la famiglia ed il reame per darsi alla vita ascetica. Fuga segreta, gli dei intervengono per non far sentire gli zoccoli del cavallo sul selciato. Arrivarono fino al limitare della foresta, luogo dell'ignoto, e i 3 si lasciano, il cavallo morirà sul colpo per il dolore della spearazione. Si cambia le vesti ricche con quelle giallo e rosse di un cacciatore, i colori della rinuncia. Turbante e gioielli li lascia allo scudiero per riportarli a casa, si taglia la lunga chioma di capelli e si avventura nella foresta alla ricerca di maestri, sperimentando l'India filosofica. Dopo la fuga dalla società, abhiniṣkramaṇa, Gautama si diresse dall'asceta Āḷāra Kālāma che soggiornava nella regione del Kosala. Lì si esercitò sotto la sua guida nella meditazione e nell'ascesi, per conseguire la ākiñcaññayatana, la “sfera di nullità” che per Āḷāra Kālāma coincideva col fine ultimo della liberazione, mokṣa. Divenne il king della tecnica, ma era insoddisfatto poichè lo stato di trance non era permanente. Gautama si spostò quindi verso la capitale del regno Magadha per seguire gli insegnamenti di Uddaka Rāmaputta. Per questi la liberazione era conseguibile attraverso la meditazione che, esercitata tramite le quattro jhāna, portava alla sfera del nevasaññānāsaññāyatana, la sfera della né percezione né non-percezione, dove persino la coscienza sembrava scomparsa. Anche qui Gautama si rende conto che però queste pratiche meditative ti danno si poteri psichici, ma sono bolle che ad una certa finiscono e si ritorna al problema. Lascia il maestro per stabilirsi presso il piccolo villaggio di Uruvelā, dove il fiume Nerañjarā (l'odierno Nīlājanā) confluisce nel Mohanā per formare il fiume Phalgu, a pochi chilometri dall'odierna Bodh Gaya. Qui trascorse gli ultimi anni prima dell'illuminazione, insieme a cinque discepoli di famiglia brahmanica: i venerabili Añña Kondañña, Bhaddiya, Vappa, Mahānāma e Assaji di cui era divenuto a sua volta maestro spirituale. Inizia a praticare tecniche di austerità estrema per sottomettere appetiti e passioni Ad un certo punto anche questa strada si dimostrò priva di sbocchi e, comprendendo l'inutilità delle pratiche ascetiche estreme e dell'automacerazione, tornò a una dieta normale (dopo aver sognato la madre che lo intimava di cambiare percorso) accettando una tazza di riso bollito nel latte offertagli da una ragazza di nome Sujatā. Ciò gli costò la perdita dell'ammirazione dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza e lo abbandonarono. Desideroso di conoscere le cause della miseria presente nel mondo, Gautama capì che la conoscenza salvifica poteva essere trovata solo nella meditazione di profonda visione e che questa poteva essere sostenuta solo se il corpo fosse stato in buone condizioni, non spossato da fame, sete e sofferenze autoinflitte. Prese tale ciotola di riso e si autodisse: se risale le correnti del fiume devo trovare un'altra strada da solo, e così la tazza fece.19)

L'illuminazione

Si mise seduto sotto un albero di fico a Bodh Gaya a gambe incrociate nella posizione del loto e iniziò a meditare:

  • Nel primo turno riuscì a guardare indietro attraverso le sue esistenze precedenti e ricordarle nei minimi dettagli che lo portarono a comprendere il ciclo di vita, morte e rinascita, il Samsara, vedere la sua esistenza nel nesso causale azione-conseguenza.
  • Nel secondo turno ottenne il potere di chiaroveggenza che gli permetteva di vedere la morte e la rinascita di tutti i tipi di esseri dell'universo in base alle loro azioni buone e cattive. Vide la legge del kàrman all’opera, ovvero il nesso causa-effetto a livello universale, il frutto delle azioni compiute da ogni vivente, che influisce sia sulla diversità della rinascita nella vita susseguente, sia sulle gioie e i dolori nel corso di essa; sinon. quindi di «destino», concepito però non come forza arcana e misteriosa, ma come complesso di situazioni che l’uomo si crea mediante il suo operato. È il debito karmico.
  • Nel terzo turno raggiunse la consapevolezza di aver eliminato una volta per tutte la brama e l'ignoranza riuscendo a raggiungere il Nirvāṇa. Divenne un Buddha, un risvegliato, colui che era riuscito a destarsi dall’ignoranza e dal torpore. Coglie la causa del perchè fonzionano così le cose, ovvero vede la cecità dell'uomo rispetto alle condizioni dell'esistenza. Se tutto è impermanente, tutto è privo di dolore, perchè seguiamo i desideri? Perchè siamo bramosi, trishna. L'inquietudine è il sintomo della nostra infelicità.

Māra il dio del desiderio, cercò prima di sedurre Siddharta tramite l'apparizione delle sue tre figlie, Tanha (lett.”Bramosia“), Arati (lett.”Noia“) e Raga (lett.”Passione“), poi cercò di spaventarlo con l'apparizione di dieci eserciti di esseri mostruosi (corrispondenti ai dieci tipi di ostacoli della vita spirituale):

  • Piacere sensuale;
  • Frustrazione;
  • Fame e sete;
  • Desiderio;
  • Pigrizia;
  • Terrore;
  • Dubbio;
  • resunzione o ingratitudine;
  • Guadagno, ricompensa, onori, e fama ingiustamente ricevuti.
  • Esaltazione di sé stessi e denigrazione del prossimo.

Mara è il tentatore, colui che distrae gli esseri dalla pratica rivolta alla Liberazione dal Saṃsāra, rendendo la vita mondana seducente o facendo sembrare il negativo come positivo. Esso rappresenta, più in generale, la Morte spirituale, tutto ciò che ostacola la via verso la Bodhi.

Gautama soddsifatto della rivlenazione, toccà terra, chiamando la dea della Terra a testimonianza di ciò che è successo. Riflettè una settimana se praticare una vita privata o conividere la sua scoperta e alla fine, aiutato anche dalle divinità scelse quest'ultima strada.20)

Il primo sermone e la carriera di insegnante

Il Buddha giunse a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, dove trovò i pañcavaggiyā, che avevano intenzione di ignorarlo. Ma il suo aspetto radioso e completamente rilassato li vinse immediatamente. Alla notizia che aveva conseguito il Perfetto Risveglio lo accolsero come maestro e gli chiesero di condividere quanto aveva scoperto. Il Buddha si proclamò un Tathāgata (“colui che ha raggiunto ciò che è realmente così”) e predicò il suo primo sermone. Esso è conservato come un discorso (sutta) intitolato Dhammacakkappavattana-vagga Sutta, Mettere in moto la ruota del Dharma e contiene gli insegnamenti essenziali del buddismo, enunciati in una formula nota come le Quattro Nobili Verità, che si apre con la condanna delle due vie estreme: l'estremismo connesso alla mera appagazione dei sensi, volgare e dannoso, e l'estremismo connesso all'automortificazione, doloroso, volgare e dannoso. Lui propone una “Via di mezzo”. Ascoltando le parole del maestro, i discepoli divennero “entranti nel flusso”. Iniziò così la fase di predicazione e di monachesimo in lungo e in largo dell'India.21)

La predicazione del Buddha segnò sotto molti aspetti un punto di radicale rottura con la dottrina del Brahmanesimo (che poi prese la forma di Induismo) e dell'ortodossia religiosa indiana dell'epoca. Infatti, in maniera non dissimile da quello del fondatore del Giainismo, Mahāvīra, il suo insegnamento non riconosceva il predominio della casta brahmanica sull'ufficio della religione e la conoscenza della verità, bensì a tutte le creature che vi aspirino praticando il Dharma. Negli anni successivi al nirvāṇa, il Buddha si spostò lungo la pianura gangetica predicando ai laici, accogliendo nuovi monaci e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla casta di appartenenza, fondando infine il primo ordine monastico mendicante femminile della storia. A condizione che l'adepto accettasse le regole della nuova dottrina, ognuno era ammesso nel sangha.

La morte

Un importante testo noto come Discorso della Grande Morte fornisce un resoconto degli eventi dei pochi mesi che precedettero la morte del Buddha. Ormai aveva ottanta anni e non stava al top, la meditazione e i poteri psichici lo tenevano in piedi. Il Buddha decise di soggiornare nei pressi di Vaiśālī ma, per non pesare troppo sulla popolazione locale oppressa dalla carestia, diede ordine ai monaci di disperdersi in tutte le direzioni, mantenendo accanto a sé solo Ānanda (il discepolo più giovane con il quale ebbe l'ultimo confronto). Lì il Buddha annunciò ad Ānanda che entro tre mesi sarebbe entrato nel parinirvāṇa. Diede inoltre ordine ad Ānanda di ricordare tutti i suoi discorsi, in modo da ripeterli poi qualora dei monaci li avessero dimenticati. Ripreso quindi a vagare nella pianura del Gange il Buddha tenne numerosi discorsi ricapitolando tutti i temi principali della sua dottrina. Secondo la tradizione, morì a Kuśināgara, nel 486 a.C. Lui scelse di morire, progressivo deterioramento psicofisico, Il parinirvāṇa indica la cessazione dell'esistenza dei cinque aggregati che costituiscono l'esistenza psicofisica dell'individuo, alla morte di un Buddha o di un arhat. È quindi sinonimo della estinzione di un Buddha o di un maestro illuminato. Il Buddha morì sdraiato sul fianco destro tra due alberi di Sal che, secondo i testi, fiorirono miracolosamente. Sebbene si dica spesso che morì per avvelenamento da cibo dopo aver mangiato un pasto a base di carne di maiale donato da un seguace laico, è chiaro che si riprese e che la sua morte avvenne un po' più tardi, apparentemente per cause naturali. Poco prima della sua morte, il Buddha riunì i monaci e diede loro l'opportunità di porre le ultime domande. Non ne fece nessuna, il che fa pensare che a questo punto il penisero era stato compreso appieno. Il Buddha pronunciò quindi le sue ultime parole: 'Il decadimento è insito in tutte le cose: assicuratevi di lottare con chiarezza di mente (per il nirvana)”. Sereno e composto, passò poi attraverso diversi livelli di trance meditativa meditativa (jhāna) prima di entrare nel nirvana finale. La descrizione dei riti funerari, sarīrapūjā, che accompagnarono la cremazione di Gautama Buddha sono strettamente correlati con la successiva venerazione per le reliquie, sarīra (sanscrito: śarīrāḥ), e vanno intese come rappresentazione del valore che queste hanno in ambito buddhista. Si assiste anche a uno slittamento semantico dal corpo fisico di Gautama alla rappresentazione dello stato di buddhità fornito dalle sarīra. La cerimonia e il funerale erano degli di un sovrano universale, questo diede il tempo a Mahākassapa, il più autorevole dei monaci dopo la morte del maestro, di giungere a Kuśināgara e prendere parte ai riti funebri. La pira l'accese lui stesso, sfiornadogli i piedi, simbolismo inverso, dato che usualmente in India i sannyasin non vengono cremati ma rilasciati nei fiumi. È vestito come un principe, quando fu proprio l'abbandono della sua veste principesca che aveva marcato l'origine della ricerca spirituale che lo aveva portato a divenire un Buddha. Una volta estinto il fuoco furono raccolte le sarīra e conservate in una scatola d'oro al centro Kuśināgara. La notizia della scomparsa del Buddha e della permanenza delle sarīra attirò una intensa competizione per impossessarsene. Il Brahmano Droṇa fu scelto come arbitro: divise le sarīra in otto parti per gli otto pretendenti, per sé tenne l'urna (kumbha) con cui aveva eseguito la partizione, le ceneri della pira andarono al brahmano Pippalāyana, giunto dopo la cremazione. Una volta distribuite le sarīra ciascuna parte costruì un grande stūpa per venerarle. Lì rimasero finché il sovrano Aśoka non le aprì per ri-suddividerle e diffonderle in stūpa eretti in tutto l'impero Maurya.22)

La ricostruzione della vita del Buddha: tra mito e storia

Ci sono due grandi orientamenti:

  • corrente storicista/orientalista: H. Oldenberg (1881) e T.W. Rhys Davids. Vedevano la biografia del Buddha come la biografia di un personaggio storico-politico, lo leggono come un riformatore della società indiana, B. R. Ambedkar leggeva un riscatto delle classe inferiori con il buddhismo.
  • corrente mitologica/simbolica/cosmologica: H. Kern, E. Senart (1875, vede la vita di un Buddha come un mito solare legato ai culti iranici antichi, recupera elementi del passato, ma del contesto culturale e storico di riferimento, non c'è una cesura netta tra il prima e il dopo, non si può esauire la figura del Buddha nel mito), A. K. Coomaraswamy (è indiano ma con cultura anglofona, collega le tradizioni precedenti al Buddhismo, insistenza dellìimportanza degli alberi come Yaksha e la madre stessa del Buddha come una Yaksi. In occidente ci sono state ricostruzione della biografia del Buddha, in particolare il successo del poema vittoriano di E. Arnold, Light of Asia del 1979, si ispira ad una tradizione non canonica del X sec d.C., il Lalitavistara, testo sanscrito, ma tradotto dal tibetano

Poi abbiamo delle biografie e racconti dei pellegrini cinesi come strumenti per l'identificazione dei luoghi.

Alexander Cunningham (1814-1893) il maschio basic occidentale che il king dell'archeologia monumentale e del Rinascimento buddhista.

É. Lamotte, tenta di far affiorare la biografia del Buddha storico dai testi “è un'impresa senza speranza” (Histoire du Bouddhisme indien, 1958)

Oggi? Tendenza a partire dalla metà del XX secolo, studiare i racconti biografici nella loro interezza senza tentare di distinguere tra storia e leggenda. Tenere di conto di come viene raccontata la vita del Buddha nelle comunità monastiche, essa è una storia esemplare e questo processo agiografico non nasce subito, possiamo immaginare una memoria storica orale e poi successivamente arricchita.

Abbiamo un assenza di un'unica biografia canonica, ma molteplicità di informazioni biografiche contenute in numerosi testi della letteratura canonica (sutra e vinaya), testi autonomi della letteratura buddhista in sanscrito (Buddhacarita, Lalitavistara, Mahāvastu), le biografie del canone cinese e del canone tibetano, materiali eterogenei che si ofrrono a interpretazioni differenti.

Tendenze recenti degli studi sulle narrazioni biografiche del Buddha:

  • Comparazione sistematica di tutte le fonti canoniche o delle fonti disponibili, frammenti per ricostruire un racconto originario (A. Bareau 1963)
  • Comparizione delle fonti letterarie e delle fonti iconografiche (D. Schlingloff 1988)
  • Comparazione sincronica delle fonti (Strong, 2004, 2009)

la questione della data:

  • Cronologia lunga, fondata sulle cronache dello Śrī Lanka (Mahāvaṃsa), nascita del Buddha 298 anni prima dell’incoronazione di Aśoka (326 a.C., secondo le cronache). NASCITA: 624 a.C. MORTE: 544. Correzione occidentale: Aśoka (268 a.C.). NASCITA: 566 MORTE: 486.
  • Cronologia corta, fondata su fonti indiane (e relative traduzioni cinesi e tibetane). Morte del Buddha 100 anni prima dell’incoronazione di Aśoka (268 a.C.). NASCITA: 448 a.C. MORTE: 368 a.C. (Heinz Bechert).

nessuna testimonianza archeologica chiaramente legata al buddhismo risale a un’epoca anteriore al III sec. a.C.

Riferimenti bibliografici: H. Bechert (a cura di), The Dating of the Historical Buddha, 3 voll., 1991-97.

la questione dei luoghi: l la tradizione del pellegrinaggio nei luoghi “della vita del Buddha” e lo sviluppo della narrazione agiografica si sono sviluppate Parallelamente intrecciandosi e influenzandosi reciprocamente. Il racconto biografico celebra alcuni siti come i luoghi di celebri eventi della vita del Buddha, d’altra parte altri siti significativi a vario titolo (per la particolarità del paesaggio o per il legame con leggende locali) confluiscono nella geografia sacra buddhista determinando un ampliamento del racconto biografico che si arricchisce di nuovi elementi.la prima testimonianza del collegamento del Buddha con alcuni luoghi del pellegrinaggio e la testimonianza del pellegrinaggio di Aśoka a Lumbinī e, forse, a Kuśinagarī datano al III secolo a.C.

Il contesto della religiosità brahmanica all’epoca del Buddha:

  • La dimensione religiosa incentrata sul rito (sacrificio), compito che appartiene ai sacerdoti (brāhmaṇa)
  • la partecipazione alla vita religiosa si configura come una rigida ortoprassi, attenta alla purezza rituale (riti di purificazione) e al compimento di ciò che previsto per ciascuno dalla propria nascita; l’azione rituale è valida solo se rispetta parametri formali; separazione dalla partecipazione diretta alla dimensione religiosa

Figure e idee diffuse:

  • śramaṇa, “asceta”, ricerca la verità solo con il proprio sforzo e per esperienza diretta; rifiuto dell’esteriorità e ortoprassi brahmanica;
  • karman, l’azione rituale nel buddhismo viene intesa in senso morale, è innanzitutto “intenzione”, “volizione”; l’atto intenzionale anche se non messo in pratica è gravido di conseguenze.
  • saṃsāra, il ciclo delle nascite, morti e rinascite

Storicità del racconto:

  • Fonti testuali compilate a secoli di distanza dalla vita del Buddha
  • Evidenze archeologiche che risalgono non oltre il III sec. a.C.
  • Testimonianze artistiche ispirate alla vita del Buddha a partire dal I sec. a.C. (Bhārhut) e I d.C. (arte del Gandhāra)

I mahāsthāna (i “grandi luoghi”)

La dinastia Maurya (323-185 a.C)

Aśoka(268-232 a.C.)

  • Promozione del buddhismo
  • Attività di propaganda (concili, editti, distribuzione delle reliquie)
  • Inizio dell’attività artistica (architettura monumentale: stūpa)

Lumbinī:

  • Evidenze epigrafiche e archeologiche per l’identificazione del sito con il luogo della nascita del Buddha: la colonna di Aśoka iscritta
  • Scavi non controllati, a partire dagli anni '30 a Lumbinī: distruzione del deposito archeologico e delle fondazioni delle strutture antiche.
  • Altri monumenti rinvenuti nel sito:
  • fondazioni di un tempio dedicato a Māyādevī
  • rilievo in pietra raffigurante la nascita

Bodhgayā:

  • Evidenze archeologiche: nel sito non restano testimonianze risalenti a periodi anteriori al II secolo a.C. La tradizione fa risalire ad Aśoka la costruzione del tempio, le cui vestigia attuali risalgono però al XIX secolo. Numerosi i riferimenti materiali agli eventi dell’illuminazione risalenti a vari periodi:
    • l’area è segnata dall’albero dell’illuminazione (Ficus religiosa) e dal bodhimaṇḍa/vajrāsana (il trono di diamante): piattaforma in pietra risalente al II secolo a.C.
    • il luogo dove il Buddha rimase a contemplare l’albero dell’illuminazione nella II settimana dopo il risveglio
    • cankrama, sentiero percorso dal Buddha in meditazione nella III settimana dal risveglio ricordato da simboli in pietra (XIX secolo)
    • ratnagṛha il luogo dove il corpo del Buddha emise raggi di luce nella IV settimana
  • Evidenze letterarie:
    • Mahāparinibbānasutta
    • Aśokāvadāna

Sārnāth:

  • Evidenze epigrafiche circa l’identificazione del sito: nessuna
  • Resti di una colonna con iscrizione risalente ad Aśoka e capitello composito; numerosi stūpa, uno dei quali definito dharmarājika

Kuśinagarī:

  • Identificazione sulla base del testo di un pellegrino cinese, il monaco Xuanzang, che nel VII secolo visita il sito e descrive la presenza di due colonne iscritte di Aśoka, L’identificazione si regge inoltre sulla presenza di una scultura monumentale, con un’iscrizione risalente al V secolo che raffigura il Buddha nel parinirvāṇa. L’attribuzione dello stūpa ad Aśoka non è supportata dalla datazione del monumento la cui parte più interna risalirebbe al I secolo d.C.

L’archeologia ha portato alla luce siti e opere d’arte connesse chiaramente con il Buddha ma si tratta di testimonianze posteriori di alcuni secoli dalla sua esistenza.

Usare fonti letterarie tarde per ricostruire eventi ben più antichi è un’operazione rischiosa (e metodologicamente sbagliata).

È d’altra parte condiviso che tutte queste testimonianze si riferiscano a una figura storica reale vissuta in qualche momento intorno alla metà del I millennio a.C.

L’insegnamento del Buddha nel contesto dell’India antica

Karma e Rinascita

Cosmologia

Il pensiero buddista divide l'universo in due categorie: l'universo fisico, che è pensato come un recipiente o “contenitore” (bhājana) e gli “esseri” (sattva) o forme di vita che vi risiedono. L'universo fisico è formato dall'interazione dei cinque elementi: terra, acqua, fuoco, aria e spazio (ākāśa); Quest'utimo è consderato infinito. Attraverso l'interazione dei cinque elementi si sviluppano dei “sistemi-mondo” che si trovano in tutte le direzioni: nord, sud, est, ovest, sopra e sotto. Si ritiene che questi sistemi-mondo subiscano cicli di evoluzione e declino che durano miliardi di anni. Nascono, resistono per un certo periodo e poi si disintegrano lentamente prima di essere distrutti in un grande cataclisma. A tempo debito si evolvono di nuovo per completare un vasto ciclo noto come “grande eone”. Lo status morale degli abitanti può determinare il destino del sistema-mondo (ganzo potrebbe avere implicazioni ecologiste molto interessanti. La Terra è ben lontana dall'essere il fulcro attorno al quale ruota il cosmo e gli esseri umani non sono gli unici attori del palcoscenico. Il tempo, inoltre, è concepito come ciclico piuttosto che lineare: la storia non ha una direzione o uno scopo generale.23) All'interno di un sistema-mondo esistono diversi “regni” di rinascita, essi sono 6 e sono spesso raffigurati nella “ruota della vita” (bhavacakra). Abbiamo poi ventisei diversi livelli o “dimore” celesti, poi degli inferni (che non sono luoghi di dannazione eterna, ma luoghi in cui il karma malvagio deve fare effetto, così i regni celesti, c'è transitorietà tra i vari regni). Sopra gli inferni abbiamo il regno animale (guidati dall'istinto e quindi deh sbussi di rinascerci perchè non avrai possibilità di comprendere la tua condizione). Sopra abbiamo il regno dei fantasmi, che si trovano al margine della soicetà umana, possiamo vederli come ombre, essi sono consumati da desideri che non possono mai essere soddisfatti e sono raffigurati nell'arte popolare come creature con grandi stomaci e bocche minuscole che simboleggiano la loro fame insaziabile ma sempre insoddisfatta. Il quarto livello è quello dei Titani, una razza di esseri demoniaci bellicosi in balia di impulsi violenti. Motivati dalla bramosia di potere, cercano costantemente conquiste in cui non trovano appagamento. Al quinto livello si trova il mondo umano. La rinascita come essere umano è considerata altamente desiderabile e allo stesso tempo difficile da ottenere. Sebbene esistano molti livelli superiori in cui è possibile rinascere, essi sono potenzialmente un un ostacolo al progresso spirituale. Rinascendo come dio in un paradiso idilliaco si può facilmente diventare compiaciuti e perdere di vista la necessità di lottare per il nirvana. Gli esseri umani hanno la ragione e il libero arbitrio e possono usarli per capire i problemi della vita.24) I ventisei piani superiori del nostro edificio (livelli 6-31) sono le dimore degli dei. I cinque cieli superiori (livelli 23-27) sono noti come “Dimore Pure” e possono essere raggiunte solo da coloro che sono conosciuti come “nnon ritornanti”. Si tratta di esseri sul punto di ottenere l'illuminazione che non rinasceranno come esseri umani. Le divinità al di sotto di questi livelli (deva) sono semplicemente esseri che, grazie al compimento di buone azioni, godono di stati di esistenza armoniosi e beati. Tuttavia, sono soggetti al karma e rinascono come tutti gli altri. I livelli superiori dei cieli sono sempre più sublimi e la durata della vita aumenta a ogni stadio, ma il tempo viene percepito in maniera completamente diversa.25)

Le tre sfere di esistenza

Questa cosmologia è accompagnata da un'altra distinzione, ovvero la divisione dell'universo in tre sfere di esistenza:

  • la “sfera dei desideri dei sensi” (kāmāvacara) che comprende tutti i livelli fino al sesto cielo sopra il mondo umano.
  • la “sfera della forma pura” (rūpāvacara), uno stato spirituale rarefatto in cui le divinità percepiscono e comunicano con una sorta di telepatia. Questo si estende fino al livello ventisette.
  • la “sfera dell'informe” (arūpāvacara), uno stato quasi indescrivibilmente sublime, al di là di ogni forma, in cui gli esseri esistono come pura energia mentale. Gli dèi, nei quattro livelli della sfera dell'informe, colgono i fenomeni in quattro modi sempre più sottili:
    • nel livello più basso (livello 28) come spazio infinito
    • nel secondo (livello 29) come coscienza infinita
    • nel terzo (livello 30) come “nulla”
    • infine si raggiunge lo stato mentale noto come “né percezione né non-percezione” (livello 31).26)

La Ruota dell'esistenza: bhavacakra

ruota_dell_esistenza.jpg

Al centro della ruota si trova la rappresentazione dei Tre veleni:

  • la cupidigia (un gallo)
  • l'odio (un serpente)
  • l'ignoranza (un cinghiale)

Attorno alla rappresentazione dei tre veleni si trova un anello diviso in una metà nera e una metà bianca. Al suo interno in senso orario si trovano varie rappresentazioni del corpo umano, dal feto alla piena maturità alla vecchiaia, o demoni, o la figura del monaco (poichè porta alla salvezza). La Ruota dell'esistenza è quindi divisa in sei spicchi, in cui in senso orario si susseguono le rappresentazioni di sei diversi “mondi”. Questi possono essere presi sia in senso letterale che in senso figurato a rappresentare stati mentali diversi. L'anello esterno della Ruota dell'esistenza presenta dodici immagini simboliche che rappresentano i dodici anelli della ruota della coproduzione condizionata. Queste, dall'alto in senso orario, sono:

  • ignoranza: una vecchia cieca con bastone che esce di casa e si dirige verso un burrone.Questa condizione è la nostra alla nascita
  • coefficienti karmici: un vasaio all'opera
  • coscienza: una scimmia che salta da una casa all'altra. Essa può salvarci solo se guidata, ma invece siamo distratti
  • nome e forma: rappresentati come due uomini su una barca in balia delle onde. Ovvero la combinazione degli elementi materiali e mentali che formano una persona, la nostra condizione psicofisica
  • ei basi dei sensi: una casa con sei finestre, che mettono in contatto col mondo esterno
  • contatto: una coppia che copula, ovvero il contatto con il mondo prova delle occasioni
  • sensazione: un uomo che corre con una freccia infilata in un occhio. Ogni contatto, ogni occasione porta con sè una sensazione
  • brama: un uomo a tavola che alza un bicchiere di alcolico. Si attiva il desiderio, quindi il volere una sensazione, oppure il rifiutarla, oppure il fregarsene.
  • attaccamento: una scimmia che coglie frutta da un albero. È il desiderare di più a randa
  • essere, divenire: una donna stesa che invita all'accoppiamento. La conseguenza karmica muove il tutto
  • nascita: una partoriente. La determinazione karmica
  • vecchiaia e morte: un uomo porta sulle spalle un cadavere avvolto in un lenzuolo in un cimitero all'aperto tra cadaveri e animali. Fine di una vita, ma non della ruota

L'intera ruota viene rappresentata saldamente stretta dagli artigli di Yama, il Signore della Morte e del Tempo. Al di sopra, in genere nell'angolo destro, viene raffigurato il Buddha Śākyamuni che indica verso un punto esterno, un altrove assoluto, la fuoriuscita dalla ruota.

Karma

Il karma funziona come l'ascensore che porta le persone da un piano all'altro dell'edificio che abbiamo appena visto. Le buone azioni si traducono in un movimento verso l'alto e le cattive azioni in un movimento verso il basso. Le azioni karmiche sono azioni morali e il Buddha definì il karma in riferimento alle scelte morali e alle azioni che ne conseguono, avendo scelto si agisce in quanto hanno effetti sia transitivi (impatto diretto) che intransitivi (impatto indiretto, influenzare). Scegliendo, costruisce un carattere che a sua volta delinea un futuro. Il buddismo spiega questo processo in termini di saṅkhāras (sanscrito: samskāras), un termine difficile che di solito viene tradotto come “formazioni mentali”.I saṅkhāra sono i tratti e le disposizioni del carattere che si formano quando le scelte morali (cetanā) vengono fatte e rese effettive nell'azione. Gli effetti a distanza delle scelte karmiche sono definiti come “maturazione” (vipāka) o “frutto” (phala) dell'atto karmico.27) Che cosa rende un'azione buona o cattiva? Dalla definizione del Buddha si può vedere che è in gran parte una questione di intenzione e di scelta. Esistono tre radici buone e tre cattive. Le azioni motivate da avidità, odio e illusione sono cattive (sanscrito: akuśala), mentre le azioni motivate dai loro opposti - non-attaccamento, benevolenza e comprensione, sono buone (sanscrito: kuśala). Le buone intenzioni devono realizzarsi in azioni giuste che sono quelle che non danneggiano nè se stessi nè gli altri.28) Il karma può essere buono o cattivo. I buddisti parlano di karma buono come “merito” (sanscrito: punya). In molte culture buddiste esiste la credenza nel “trasferimento dei meriti”, l'idea che il buon karma possa essere condiviso con gli altri.29)

Le quattro nobili verità: una diagnosi della condizione universale

Obiettivo è quindi porre fine alle rinascite e alla sofferenza, ciò consiste nella realizzazione del potenziale umano di bontà e felicità. Chi raggiunge questo stato completo di auto realizzazione si dice che abbia raggiunto il nirvana. Esso è sia un concetto che un'esperienza, ovvero delinea una vita ideale e una pratica per raggiungerla. Come si arriva al nirvana? Uno potrebbe dire compiere buoni azioni e vivere una vita eticamente virtuosa, però alcuni non sono d'accordo perchè anche le buone azioni creano debito karmico. Ma i testi e il Buddha stesso parlano a rota di vita morale; Come risolvere questo cortocircuito? Per alcuni la vita etica è importante, ma da sola non basta. L'altra componente che è necessaria è la saggezza (sanscrito: prajñā), che significa una profonda comprensione filosofica della condizione umana.30) Ammesso che la saggezza sia la controparte essenziale della virtù, che cosa è cosa si deve conoscere per diventare illuminati? La risposta è semplice quella che ha esperito il Buddha storico e che ha divulgato nel suo primo sermone: le “quattro nobili verità”, esposte nel “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” (Dharmacakrapravartana Sūtra, sans.). Esse sono strutturate secondo un'indagine medica:

  • la prima verità è la diagnosi
  • la seconda verità è l'analisi eziologica
  • la terza verità è l'analisi di una possibile cura
  • la quarta verità è l'attuazione della cura

Esse costituiscono il Dharma etrmine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati. Può essere tradotto come “dovere”, “legge”, “legge cosmica”, “legge naturale”, oppure “il modo in cui le cose sono”. Per l'induismo è la norma che regge il mondo: rispettare il Dharma diviene il rispetto di una serie di norme che sono alla base dell'universo naturale e di quello sociale il cui ordine va sempre garantito, per esempio il non essere violento e la coerenza di postura in pensiero e azione. Nel buddhismo, possiede l'ulteriore significato di Legge universale naturale, ovvero le regole in cui il saṃsāra segue il suo corso, indica gli insegnamenti del Buddha, a partire dall'origine del duḥkha (la sofferenza), la pratica di tali insegnamenti, la via verso l'Illuminazione e di conseguenza il Buddhismo stesso.

La verità sulla sofferenza

Nella vita degli esseri senzienti (sanscrito sattva, cinese 衆生 zhòngshēng, giapponese. shūjō), tra cui l'essere umano, è insita la “sofferenza” (san. duḥkha, cin. 苦 kǔ, giapp. ku). Tale esperienza del dolore riguarda anche i momenti di “appagamento” e “serenità” in quanto essi stessi impermanenti. Nei testi canonici il Buddha Shakyamuni individua otto tipi di dolore:

  • Il dolore della nascita, causato dalle caratteristiche del parto e dal fatto di generare le sofferenze future.
  • Il dolore della vecchiaia, che indica l'aspetto di degrado dell'impermanenza.
  • Il dolore della malattia, determinato dallo squilibrio fisico.
  • Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.
  • Il dolore causato dall'essere vicini a ciò che non “piace”.
  • Il dolore causato dall'essere lontani da ciò che si “desidera”.
  • Il dolore causato dal non “ottenere” ciò che si “desidera”.
  • Il dolore causato dai cinque skandha (o aggregati), ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. Questi sono: il corpo, (rūpa), quale manifestazione dei 4 elementi terra, aria, fuoco e acqua; le sensazioni (vedanā); le percezioni (saññā); le formazioni mentali (sankhāra); la coscienza (viññāna), ed essi sono la novità specifica del buddhismo all'interno del pensiero induista, infatti non parla di anima.31)

Questa lista di otto dolori viene riassunta in tre categorie (san. tri-duḥkhatā, cin. 三苦 sānkǔ, giapp. sanku):

  • Dolore in quanto tale (san. duḥkha duḥkhatā, cin. 苦苦 kǔkǔ, giapp. kuku). Questa categoria riassume i dolori inerenti alla nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte. Ma anche quelli riguardanti all'essere uniti a ciò che non si desidera e a quelli procurati nel cercare di fuggire lo stesso dolore.
  • Dolore per ciò che muta (san. vipariṇama duḥkhatā, cin. 壞苦 huài kǔ, giapp. e ku). In questa categoria vengono riassunte le sofferenze procurate dall'impermanenza come quelli dell'essere separati da ciò che si desidera o quelli generati da non ottenere ciò che si brama.
  • Dolore generato dall'esistenza (san. saṃskāra duḥkhatā, cin. 行苦 xíngkǔ, giapp. gyōku). In questa categoria vengono elencati i dolori relativi all'insoddisfazione perenne procurata dall'esistenza nel saṃsāra: la frustrazione, l'inutilità di numerose nostre attività. Queste sofferenze sono collegate ai cinque skandha (o aggregati) e ai relativi attaccamenti.

Il “dolore” affligge l'uomo a motivo dell'impermanenza sia propria che di tutto ciò che sperimenta e conosce in vita, per effetto della sua nascita immersa nel saṃsāra e per l'adesione alla credenza in un sé imperituro. Questa sofferenza si rivela ed è percepita non solo quando si constata l'ineluttabilità di malattia, vecchiaia e morte, ma anche quando si è costretti al contatto con ciò che non si ama (contatti, connessioni, relazioni, interazioni con persone, cose od eventi sgradevoli ecc.), come pure è percepita quando si è costretti alla separazione da ciò che si ama o in cui ci si diletta, o ancora quando si risente di un disagio esistenziale derivante dallo scontrarsi con una realtà che non soddisfa la propria adesione all'idea di un sé solido, affidabile ed imperituro. La frustrazione dei desideri è una delle più usuali percezioni del “dolore”. Più in generale, la constatazione che viene fatta nella “Prima nobile verità” è che esiste nella vita dell'uomo una “sofferenza” associata indistricatamente all'essere nel mondo un mutevole «composto di aggregati».32)

Come era concepita la liberazione nel pensiero filosofico indiano?

l termine sanscrito di genere maschile mokṣa, così come il termine sanscrito femminile avente il medesimo significato mukti, indicano in questa lingua la “liberazione” dal ciclo di nascita-morte, dalla sofferente trasmigrazione, propria del saṃsāra. Ambedue i termini originano dal verbo sanscrito muc avente il significato di “liberarsi”. Come abbiamo visto, la nozione di “liberazione” dal saṃsāra non attiene al “vedismo”, ovvero alla religione antica dell'India, compendiata nei suoi testi religiosi dei Veda e dei Brāhmaṇa, il quale persegue essenzialmente la bhukti, la felicità terrena, quanto piuttosto origina dai testi delle Upaniṣad (il termine qui usato è mukti; mentre nella Chāndogya Upaniṣad, VII, 26,2, è il composto vipramokṣa, dallo stesso significato) e si diffonde nel VI secolo a.C., contemporaneamente al buddhismo e al giainismo. Tale nozione di “liberazione”, espressa con termini sempre derivanti dal verbo muc, verrà successivamente approfondita da importanti testi induisti quali la Bhagavadgītā e il Manusmṛti . In ambito delle filosofie yogiche il termine utilizzato per indicare la liberazione è invece apavarga nel significato di “abbandono”, “fuga” dal saṃsāra. Mentre la filosofia sāṃkhya predilige il termine kaivalya col significato di isolamento del puruṣa liberatosi dalla prakṛti. Le tradizioni ascetiche predicano la liberazione in vita e non dopo la morte del corpo, nel qual caso tale raggiungimento viene indicato con il termine jīvanmukta (“liberato in vita”). A partire dai commentari del Brahmasūtra propri della medievale filosofia Vedānta, il termine più diffuso diviene mokṣa. Sono differenti le “vie” di “liberazione” dal saṃsāra che il complesso religioso che va sotto il nome di “Induismo” offre al suo praticante (ad esempio le darśana), e queste possono essere approfondite nelle voci delle relative scuole e insegnamenti. In generale attraverso la meditazione si arriva a progressivi stati di coscienza rarefatti, esperire “a togliere”, ma non è una condizione permanente e sta lì il problema per il buddhismo.

La verità del sorgere

Come nasce questa sofferenza? La seconda verità è che il “dolore” non è colpa del mondo, né del fato o di una divinità; né avviene per caso. Ha origine dentro di noi, dalla ricerca della felicità in ciò che è transitorio, spinti dalla sete, o brama (sanscrito tṛṣṇā, cin. 愛 ài, giapp. ai), per ciò che non è soddisfacente e questo genera attaccamento. Si manifesta nelle tre forme di:

  • kāmatṛṣṇā (cin. 欲愛 yùài, giapp. yoku ai) o “brama di oggetti sensuali” (piaceri in senso lato);
  • bhavatṛṣṇā (cin. 有愛 yǒuài, giapp. u ai) o “brama di esistere” (di potenziare il proprio ego);
  • vibhavatṛṣṇā (cin. 無有愛 wúyǒuài, giapp. mu u ai) o “brama di annullare l'esistenza” (di pensare di non avere nessun valore).

Tutti i desideri sono sbagliati? no, il termine indica tutti quei desideri eccessivi o erroneamente indirizzati. Ovvero tutti quei desideri alimentati dall'odio, dall'ignoranza e la cupidigia

La verità della cessazione

La terza verità è che “Esiste l'emancipazione dal dolore”. Per sperimentare l'emancipazione dal dolore, occorre lasciare andare tṛṣṇā, l'attaccamento alle cose e alle persone, alla scala di valori ingannevoli per cui ciò che è provvisorio è maggiormente desiderabile. Questo stato di cessazione viene denominato nirodha (cin. 滅 miè, giapp. metsu). Cosa viene “spento”? È forse la propria anima, il proprio ego, la propria identità? Non può essere l'anima a essere spenta, perché il buddismo nega che esista. E non è nemmeno l'ego o il senso di identità a scomparire, anche se il nirvana implica uno stato di coscienza radicalmente trasformato e libero dall'ossessione di “io e mio”. Ciò che si spegne, infatti, è il triplice fuoco della dell'avidità, dell'odio e dell'illusione che porta alla rinascita. Ricordiamo che abbiamo un nirvana nella vita e un nirvana finale con la morte (di cui è difficile dare una definizione).

La verità del sentiero

La quarta verità è che “Esiste un percorso di pratica da seguire per emanciparsi dal dolore”. È il percorso spirituale da intraprendere per avvicinarsi al nirvāṇa (cin. 涅槃 nièpán, giapp. nehan). Esso è detto il Nobile ottuplice sentiero ed è il modo migliore per vivere una vita appagante. Si compone di otto fattori suddivisi nelle tre categorie di Moralità, Meditazione e Saggezza, che vedremo un po' più nel dettglio.

Il “Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina” individua tre fasi nella comprensione di ogni verità, per un totale di dodici passi. Le tre fasi per la comprensione di ciascuna verità sono:

  • Sacca-nana - conoscere la natura della verità.
  • Kicca-nana - conoscere ciò che deve essere fatto in relazione a tale verità (esperienza diretta).
  • Kata-nana - realizzare ciò che deve essere fatto (piena comprensione, conoscenza).

Prima nobile verità

  • C'è la sofferenza.
  • La sofferenza deve essere compresa.
  • Ho compreso la sofferenza.

Seconda nobile verità

  • Esiste un'origine della sofferenza: è l'attaccamento al desiderio (tanha).
  • Il desiderio deve essere lasciato andare.
  • Ho lasciato andare il desiderio.

Terza nobile verità

  • Esiste la cessazione della sofferenza.
  • La cessazione della sofferenza deve essere realizzata.
  • Ho realizzato la cessazione della sofferenza.

Quarta nobile verità

  • Esiste un sentiero che porta alla cessazione della sofferenza
  • Il sentiero che porta alla cessazione della sofferenza deve essere coltivato e realizzato.
  • Ho coltivato e realizzato il sentiero che porta alla cessazione della sofferenza

Nobile ottuplice sentiero

  • retta visione
  • retta intenzione
  • retta parola
  • retta azione
  • retta sussistenza
  • retto sforzo
  • retta presenza mentale
  • retta concentrazione

Bisogna sviluppare gli Otto sentieri“ con un approccio “olistico”, perfezionandoli contemporaneamente e in modo equilibrato. Questo implica che non occorre predisporre un ordine sequenziale di questi sentieri ma, piuttosto, l'indicazione che il percorso buddhista tenda complessivamente a tutte le sfaccettature di una singola attività quotidiana, sia mentale che fisica, verbale o spirituale. Esso però può essere considerato secondo tre tipologie di perfezionamento denominate in sanscrito trīṇiśikṣaṇi o śikṣā-traya, cin. 三學, sān xué, giapp. san gaku). Questo ordinamento prevede una “spirale” di perfezionamento. Ogni passo procede ad un elevamento verso quello successivo che poi spinge quello che lo precede.

  • la “prima tipologia di perfezionamento” viene denominato in sanscrito adhiśīlam (cin. 戒學 jièxué, giapp. kaigaku) e riguarda la moralità (sanscrito śīla, cinese 戒 jiè, giapp. kai):
    • Retta parola, cioè l'assunzione della personale responsabilità delle nostre parole, ponendo attenzione nella loro scelta e ponderandole in modo che esse non producano effetti nocivi sugli altri e di conseguenza a noi stessi; ciò significa anche che il nostro agire deve essere improntato al nostro parlare e corrispondere ad esso.
    • Retta azione, cioè l'azione non motivata dalla ricerca di egoistici vantaggi, svolta senza attaccamento verso i suoi frutti.
    • Retta sussistenza, cioè vivere in modo equilibrato evitando gli eccessi, procurandosi un sostentamento adeguato con mezzi che non possano arrecare danno o sofferenza agli altri. Questo comporta anche la corretta padronanza delle proprie intenzioni, in modo che esse siano sempre orientate e dirette lungo la linea mediana di condotta di vita (sanscrito madhyamāpratipad, cinese 中道 zhōngdào, giapp. chūdō) lontana dagli estremi dell'ascetismo e dell'edonismo.
  • la “seconda tipologia” viene denominata in sanscrito adhicittaṃśikṣā (cinese 增上心學 zēngshàngxīn xué, giapp. zōjōshin gaku) e riguarda la specificità della meditazione (sanscrito samādhi, cinese 定 dìng, giapp. jō):
    • Retto sforzo, cioè lasciare andare gli stati non salutari e coltivare quelli salutari. Significa anche confidare nella bontà della propria pratica buddhista perseverando con un corretto ed equilibrato impegno nello sforzo, motivato dalla fede (sanscrito śraddhā, cinese 信 xìn, giapp.) che al buddhista praticante proviene dai risultati ottenuti nell'avanzamento lungo il percorso della propria personale realizzazione spirituale e nell'avanzamento verso una sempre maggiore capacità di esercitare la “Corretta azione” nella propria pratica buddhista.
    • Retta presenza mentale, cioè la capacità di mantenere la mente priva di confusione, non influenzata dalla brama e dall'attaccamento (sanscrito tṛṣṇā, cinese 愛 ài, giapp. ai).
    • Retta concentrazione, cioè la capacità di mantenere il corretto atteggiamento interiore che porta alla corretta padronanza di se stessi durante la pratica della meditazione (sanscrito dhyāna, cinese 禪那 chánnà, giapp. zenna).
  • la “terza tipologia” viene denominata in sanscrito prajñā-śikṣā (cinese 慧學 huìxué, giapp. egaku) e riguarda la saggezza (sanscrito prajñā, cin. 慧 huì, giapp.):
    • Retta visione, cioè il riconoscimento delle “Quattro Nobili Verità” attraverso la loro corretta conoscenza e la conseguente loro corretta visione.
    • Retta intenzione, cioè il corretto impegno sostenuto dalla “Retta visione” nel padroneggiare la tṛṣṇā (l'attaccamento al desiderio di vivere, alla brama ed all'avidità di esistere, di divenire o di liberarsi, al desiderio di affermare il proprio presunto «sé esistente») e dalla compassione (sanscrito karuṇā, cinese 慈悲 cíbēi, giapp. jihi) per tutti gli esseri.

È una ristrutturazione intellettuale, emotiva e morale.

Mahāyāna

Non passò molto tempo prima che sorgessero dei disaccordi, inizialmente su questioni di pratica monastica e in seguito sulla dottrina e, in assenza di un'autorità centrale si svilupparono tradizioni differenti. Il disaccordo più grave si verificò circa un secolo dopo la morte del Buddha tra un gruppo, in seguito designato come “Anziani” (Sthaviras), e un altro noto come “Assemblea Universale” (Mahāsaṅghikas).

La causa più probabile dello scisma, non furono come sostengono alcuni, motivi dottrinali, ma sembra essere stato il tentativo da parte degli anziani di modificare la Regola monastica introducendo ulteriori regole di condotta. A tempo debito sia gli Anziani che l'Assemblea Universale si frammentarono in una serie di numerose sotto-scuole. Tutte queste si sono estinte nel frattempo, con l'eccezione del Theravāda, che discende dalla tradizione degli Anziani. Tuttavia, molte di queste prime scuole hanno lasciato un'eredità nel contributo a un nuovo movimento rivoluzionario che divenne noto come Mahāyāna, “Grande Veicolo”. Esso pone grande enfasi nella ricerca della salvezza per gli altri. Questo idea trova espressione nell'ideale del bodhisattva, una persona che fa voto di lavorare instancabilmente per innumerevoli vite per condurre gli altri al nirvana.33) È la compassione (karunā) che muove un bodhisattva, non è un redentore, ma è con l'esempio che aiuta le persone, una guida. Il Buddha storico invece inizia sempre ad allontanarsi sempre di più: un essere così compassionevole non può essersi ritirato dall'esistenza, ma continua ad aiutarci in un mondo trascedente. Emerse una nuova buddhologia in cui si sosteneva l'esistenza di “tre corpi” (trikāya) o esistenti in tre dimensioni: terrestre, celeste e trascendente:

  • il corpo terrestre (nirmānakāya) era il corpo umano
  • il corpo celeste (sambhogakāya) si trovava in un regno di beatitudine situato da qualche parte “a monte” del mondo che abitiamo ora
  • il corpo trascendente (dharmakāya) era identico alla verità ultima, la Buddhità in quanto tale.

Non era raro che i monaci ordinati nell'Assemblea Universale, o anche in rami della tradizione degli Anziani, avessero dei Mahāyāna pur vivendo in comunione con confratelli che non lo facevano. Emergono dei nuovi sutra di riferimento, scritti anonimi e a più mani: il Sūtra del Loto (200 ca.), intraprende una drastica revisione della storia buddista delle origini. Sostengono, in sostanza, che, sebbene il Buddha storico fosse sembrato vivere e morire come un uomo comune, in realtà era illuminato da sempre e che aveva rivelato una verità parziale perchè più comprensibile, c'era bisogno di un secondo giro della ruota del Dharma. Ciò che i seguaci del Mahāyāna cercavano soprattutto attraverso la loro pratica religiosa era seguire il sentiero del bodhisattva. Lo stadio iniziale cruciale è l'insorgere di quello che è noto come “pensiero di illuminazione” o bodhicitta. Questo potrebbe essere considerato un'esperienza di conversione. Fa un voto (pranidhāna) di salvare tutti gli esseri conducendoli al nirvana. Al centro della pratica di un bodhisattva ci sono sei virtù, note come le Sei Perfezionini:

  • Generosità
  • Moralità
  • Pazienza
  • Coraggio
  • Meditazione
  • Saggezza

Egli progredisce attraverso uno schema di dieci stadi (bhūmi), ognuno dei quali è un importante punto di riferimento sulla via del nirvana. Si creò un vasto pantheon di Buddha e Bodhisattva e si inizò ad affermare che tutti i mondi avessero avuto dei Buddha, così emersero nomi fittizi e regni dei Buddha. Una “famiglia” di cinque Buddha, è spesso raffigurata in diagrammi mistici circolari noti come mandala. Man mano che i nuovi sūtra si moltiplicavano, i maestri buddisti cominciarono a comporre commentari e trattati che esponevano le basi filosofiche del Mahāyāna. Il più famoso di questi filosofi fu Nāgārjuna, che visse intorno al 150, e fondò una scuola conosciuta come la Madhyamaka o “scuola di mezzo”. Nella tradizione canonica i dharma erano considerati i mattoni di cui erano composti tutti i fenomeni. Erano concepiti come impermanenti, ma non per questo meno reali. Su questa base, oggetti come tavoli e sedie venivano analizzati come composti di elementi piuttosto che come entità con una natura propria e duratura. Una sedia, ad esempio, potrebbe essere vista come composta solo da gambe, sedile e schienale: non c'è una “sedia” al di là di queste parti. Nāgārjuna, invece, interpretò la dottrina dell'origine in solo impermanente, ma priva di qualsiasi realtà intrinseca. Egli riassumeva questo dicendo che tutti i fenomeni, tavoli, sedie, montagne, persone sono semplicemente vuoti di qualsiasi essere reale. Però non sostiene che le cose non esistano, ma semplicemente che non esistono come realtà indipendenti nel modo in cui la gente normalmente crede. Questa linea di pensiero aveva un'altra importante implicazione, ossia che non ci può essere differenza tra il nirvana e il regno della rinascita ciclica (samsāra). Se ogni cosa è priva di esistenza reale, tutto è sullo stesso piano e non possiamo fare distinzoni, la differenza non sta nelle cose, poichè esse sono tutte vuote, la differenza allora starà dentro di noi e la nostra percezione delle cose. Ne consegue che il nirvana è qui e ora, se solo potessimo vederlo. La rimozione dell'ignoranza spirituale (avidyā) e la realizzazione che le cose sono vuote distrugge la paura o il desiderio per esse. Questo complesso di idee fu chiamato “la dottrina della vuoto” (śūnyavāda). Oltre alla dottrina del vuoto, sono sorti molti altri sistemi filosofici complessi, come l'insegnamento della “sola mente” (cittamātra), una forma di idealismo che vede la coscienza come unica realtà e nega l'esistenza oggettiva agli oggetti materiali. Nessuno dei primi insegnamenti del Buddha viene rifiutato dal Mahāyāna, anche se a volte vengono reinterpretati in modo radicale. Le aree in cui il Mahāyāna è stato più innovativo sono state la sua buddhologia rinnovata e nei culti devozionali che sorsero intorno ai vari Buddha e bodhisattva.

Storia del buddhismo in India

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14)
J. Silk, Buddhist Studies, p. 94
15)
Ivi, p.94
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